Finisce con un pareggio la tornata elettorale con cui il centrodestra ha tentato, pur senza porlo come obiettivo espresso, la spallata al governo giallo-fucsia. Pur tra errori non secondari – la scelta di Fitto in Puglia, ad esempio – il centrodestra ha almeno provato a giocare a tutto campo questa fondamentale partita politica, con un’unica eccezione: la Campania.
Nella regione di Vincenzo De Luca – riconfermato governatore con un voto plebiscitario – il centrodestra non ha giocato male la partita elettorale, di fatto non è mai sceso in campo. E i disastrosi risultati maturati nelle urne stanno lì, nella loro fredda evidenza, a dimostrarlo. Per il candidato presidente Stefano Caldoro il traguardo del 20% resta un miraggio, nessuno dei tre partiti maggiori della coalizione di centrodestra riesca ad inanellare un risultato a doppia cifra. Il derby interno ai sovranisti vede l’affermazione di Fratelli d’Italia, sebbene con una percentuale ben lontana dalle aspettative della vigilia: il partito di Giorgia Meloni, infatti, arresta la sua corsa al 5,9% (non troppo lontano dal 5,4 ottenuto alle regionali del 2015). A dispetto dei toni trionfalistici della vigilia, alimentati da sondaggi su base nazionale utili – come ben sa ogni addetto ai lavori – solo per un titolo di giornale, non certo per costruire strategie politiche e programmi elettorali credibili.
Ma andiamo con ordine. Alla fine del 2019 il governatore De Luca è in forte difficoltà, la crisi morde forte in Campania e il quinquennio di governo regionale che si avvia a conclusione non ha prodotto risultati particolarmente brillanti, ad iniziare dal travagliato e delicatissimo fronte della sanità. Lo schieramento deluchiano vacilla, c’è chi inizia a pensare a cambiare bandiera. Il centrodestra annusa aria di vittoria, ma invece di individuare un candidato presidente in grado di contendere palmo per palmo il territorio ad un agguerritissimo De Luca, inizia a perdersi in liturgie da Prima Repubblica. Alla fine dal cilindro spunta il nome di Stefano Caldoro: già governatore campano, era stato sconfitto 5 anni fa da De Luca. Pacato e preciso, per temperamento Caldoro appare il meno adatto a contrastare una macchina da campagna elettorale come l’ex sindaco di Salerno, tuttavia la tempestiva individuazione del candidato sembra andare nella direzione giusta.
Nel momento in cui lo sfidante di centrodestra inizia a muovere i primi passi due eventi imprevedibili: da un lato l’incomprensibile passo indietro della Lega, intenzionata a rimettere in discussione la candidatura di Caldoro nel tentativo di imporre un proprio candidato, dall’altro l’esplosione della pandemia. In breve quello che era il candidato governatore del centrodestra si vede declassato a “possibile candidato”, mentre iniziano a circolare i nomi più disparati: ex rettori, imprenditori, persino un magistrato dichiaratamente di sinistra. La sortita della Lega spinge, ovviamente, anche FdI a lanciare un proprio candidato alla presidenza, individuato in Edmondo Cirielli. In breve, il caos.
Lo stato emergenziale dovuto al Covid-19 offre, d’altra parte, la grande occasione di rilancio a Vincenzo De Luca, abilissimo come sempre a fiutare gli umori popolari ed a costruzione una narrazione – più che un’azione – ad essi ispirata. Nel giro di una settima lo “sceriffo” passa dai maxi concorsi regionali svolti con la partecipazione di migliaia di candidati, e dal richiamo a quei sindaci che chiudono le scuole, a paladino intransigente del blocco. La paura monta e De Luca sa come cavalcarla. In breve insieme al veneto Zaia De Luca si ritrova in prima fila a bacchettare un governo balbettante ed incerto, annunciando misure draconiane con i soliti toni istrionici. Una sapiente campagna di comunicazione fa il resto.
Intanto il centrodestra si avviluppa in un dibattito surreale, condito con un vuoto spinto di proposte. Fino ad arrivare al ripescaggio di Caldoro come candidato presidente. Settimane regalate a De Luca che, intanto, lavora senza sosta per costruire una coalizione capace di inglobare da sinistra al centro moderato praticamente tutti. Inclusi numerosi esponenti di destra e centrodestra, allettati dalla possibilità di una facile vittoria elettorale. Trasformismo? Senza dubbio. Ma anche segno del deserto che c’è nell’altro campo. Il paragone con la tornata elettorale del 2015 è semplicemente impietoso: cinque anni fa De Luca si assicura la vittoria con il 41,1%, mentre Caldoro si attesta al 38,3%, oggi il governatore viene incoronato dal 69,4% dei campani, il suo sfidante di centrodestra resta inchiodato al 17,9%.
Le cause della Waterloo del centrodestra sono numerose, il balletto sul nome del candidato governatore è solo la più evidente. Conta l’assenza sul territorio – e la difficoltà a trovare candidati per le liste ne è indice preciso -, la mancata volontà della Lega di selezionare una classe dirigente locale (Salvini continua a preferire commissari made in Padania per il partito campano), l’arroccamento di una classe dirigente – o quel che ne resta – incapace di intessere un dialogo con le parti vive della società campana. L’idea, poi, che il consenso possa costruirsi con un post o un tweet è purtroppo fenomeno non solo campano.
Perdono fascino ed attrattività anche i pentastellati. Dopo aver tentato invano di costruire un’intesa con il Pd – sponsorizzata soprattutto dai parlamentari campani – chiedendo la testa di De Luca e proponendo la candidatura del ministro Costa, i grillini si sono dovuti rassegnare alla corsa solitaria. In campo nuovamente Valeria Ciarambino – in pratica si è riproposta la terna di candidati del 2015, con buona pace dell’invocato rinnovamento -, ma questa volta la Campania è tutt’altro che una roccaforte “gialla”: la candidata pentastellata si ferma al 10%, il 7,5% in meno rispetto a cinque anni fa.
Il nuovo quinquennio deluchiano si apre, dunque, con una vittoria larghissima, pari solo a quella di Zaia in Veneto. Ma c’è una differenza sostanziale: in Campania – a differenza che in Veneto – non si è aggregato intorno a De Luca un blocco sociale che si riconosce in un programma ed in un’idea di sviluppo del territorio. Ad essere buoni c’è chi ha scelto il meno peggio.