L’avvento della destra al potere generò uno stato di dispotismo e di persecuzione nei confronti di tutto il mondo antifascista. Ben presto si comprese che la fuga dall’Italia era l’unica possibilità di salvezza. Non c’era tempo da perdere, le milizie meloniane erano state sguinzagliate per tutto il paese. In pochi giorni gli aeroporti di Linate, Fiumicino, Ciampino e Malpensa, erano stati invasi da cittadini progressisti in fuga. Lunghe file ai check-in di uomini e donne, poche cose con loro, tutto quello che erano riusciti ad arraffare prima di lasciare casa, affastellato in trolley di Louis Vuitton o di Gucci; alcuni erano riusciti ad indossare ai polsi fino a quattro Rolex, pur di salvare il salvabile. Le mete erano New York, Los Angeles, Miami.
Il quartiere di Brera a Milano, sembrava un pezzo di città fantasma, le strade semi deserte, percorse solo da domestici cingalesi e filippini. Levrieri e chihuahua vagavano abbandonati, la triste scelta di non portarli con sé da parte di ferventi animalisti.
Al confine di Ventimiglia il popolo antifascista si mischiava alla marmaglia degli immigrati clandestini per poter varcare la frontiera. La polizia francese cercava di filtrare, gli esuli facevano notare che loro erano ben altra cosa, rispetto a quei neri nigeriani che cercavano di infiltrarsi. Al di là del confine era viva la solidarietà del popolo francese della gauche; volontari offrivano generi di prima necessità , panini e bevande, accogliendo gli infreddoliti esuli italiani; chi tendeva loro un caffè al ginseng, chi per sottolineare una comunanza di situazioni anche un caffè marocchino.
I porti di Sanremo, Loano, Viareggio si svuotavano di tante imbarcazioni da diporto, stracolme di umana sofferenza. Una flotta di yacht battenti bandiere panamensi e perfino con qualche tricolore si era formata al largo del Tirreno; la sua barca ammiraglia non poteva essere che quella di Carlo De Benedetti; tutti prendevano la rotta per la Costa Azzurra, dove Saint Tropez o Cap d’Antibes attendevano con grande partecipazione l’arrivo degli esuli confratelli.
A Villa di Chiavenna una fila ininterrotta di auto iniziata a Samolaco, antica località di frontiera dell’impero romano, premeva alle sbarre della dogana, per raggiungere il territorio svizzero, per poi insediarsi a Saint Moritz oppure a Pontresina, tanto amata dal sindaco Sala, anch’egli confuso tra gli sfollati.
Nel mentre, nelle piazze delle grandi città, il buio della notte era squarciato dalla luce delle fiamme di pire gigantesche, dove si accumulavano a bruciare i libri di Saviano, nel frattempo riparato nel suo umile loft di New York. Ma anche i libri della Murgia, della Littizzetto, di Gramellini non venivano risparmiati, con grave affronto per la Cultura.
Sull’altipiano del Gran Sasso venivano costituiti i primi campi di rieducazione per gli intellettuali antifascisti. Costretti a recitare a memoria gli editoriali di Vittorio Feltri, a cantare tutte le canzoni della Pausini, nutriti solo da una ciotola di riso, e vestiti tutti da una tuta verde oliva, si recavano una volta al dì nelle distese di campi di patate.
Gli occupanti dei centri sociali, vittime di rastrellamenti da parte delle forze della reazione, venivano obbligati a strappare i manifesti rimasti di Enrico Letta ed a ballarci sopra, in un macabro rituale.
Catene di solidarietà si sviluppavano ovunque, nell’Europa libera e politicamente corretta, destinando ai profughi italiani antifascisti, un quinto degli aiuti diretti in Ucraina. Solo un quinto? Per forza, saranno anche progressisti, ma comunque pur sempre italiani mangiaspaghetti, pizza e mandolino.