Francia, 1944: assieme all’amico Basil Shaw (professore a Oxford), l’archeologo Henry Walton jr., meglio noto come Indiana Jones, contende ai nazisti in ritirata dalla Francia la lancia di Longino, con la cui magia Hitler spera di ribaltare le sorti del conflitto. Sia loro che due tedeschi, il colonnello Webber e l’astrofisico Jurgen Voller, si rendono però conto che tra i reperti trafugati ve n’è uno dal potere immensamente più grande: l’Antikytera, un quadrante realizzato dal grande Archimede per manovrare assieme lo spazio e il tempo.
New York, 1969: Walton/Indy è un professore in via di pensionamento in un college dove nessuno gli dà ascolto. Lo raggiunge Helena Shaw, la sua figlioccia (da lui ribattezzata “Vombato”): il padre è morto, dopo anni trascorsi in preda all’ossessione per l’Antikytera; adesso è lei a cercare il manufatto, sulle cui tracce vi è anche il prof. Voller (che, con lo pseudonimo di “Dr. Schmidt”, ha collaborato con la NASA all’allunaggio dell’Apollo 11) assistito dai suoi adoranti scagnozzi, il maniaco delle pistole Klaber e il gigantesco Hauke.
Steven Spielberg lascia all’esperto James Mangold (già regista del miglior film di tutta la carriera di Sylvester Stallone, “Cop Land”) la regia del ritorno del personaggio ideato da George Lucas e Philip Kaufman.
Secondo Lucas, l’Antikytera è nel film un “MacGuffin”: che qualcuno che ha tanto condizionato l’immaginario pop (e si sia arricchito con i film) non comprenda un concetto tanto semplice (“MacGuffin” è un oggetto col quale si attira l’attenzione dello spettatore, salvo poi non farne nulla: l’Antikytera invece è fondamentale all’inizio del film e resta tale anche nel suo scioglimento, al quale si arriva proprio utilizzandola!) è eloquente riguardo i danni fatti dal suo cinema (“Star Wars” è stata una sciagura).
Dopo Cate Blanchett (Irina Spalko, pupilla di Stalin in “Il regno del teschio di cristallo”), un altro avversario di lusso per Indiana Jones: stavolta si tratta di Mads Mikkelsen, bravissimo attore danese dal fascino superbo, qui nei panni del dottor Voller: è crudele, nei riguardi del legnosissimo Harrison Ford (uno che, gli si affidi Rick Deckard nel meraviglioso “Blade Runner”, o più semplicemente Jack Ryan nell’ennesimo adattamento delle boiate di Tom Clancy, continua comunque imperterrito a ripetere le smorfie di Ian Solo), insistere a contrapporgli attori tanto più validi di lui. Il prof. Shaw è il valido caratterista inglese Toby Jones.
Sceneggiatrice di telefilm e dell’ultimo Bond (“No Time To Die”), ideatrice e protagonista della serie “Fleabag” (“sacco di pulci”), Phoebe Waller-Bridge è Helena; avventuriera cinica, opportunista e intrallazzona, non è antipatica come Mutt Williams (il figlio di Marion e Indiana, interpretato da Shia LaBoeuf – che, credendosi spiritoso, disse d’essersi ispirato a Marlon Brando – nel quarto film, “Il regno del teschio di cristallo”), ma non ci manca molto.
C’è spazio anche per il divo andaluso Antonio Banderas (barba e capelli ispidi a coprirne la solita recitazione nervosa), nel ruolo di Renaldo, esperto palombaro che aiuta Indiana nel Mar Egeo. Thomas Kretschmann, attore tedesco che (oltre ad aver recitato in Italia per Pupi Avati e Dario Argento) spesso si trova in divisa da ufficiale nazista (“U-571”, “Il pianista”, “La caduta”, “Operazione Valchiria”, “Stalingrad”), qui è il colonnello Weber, che contende a Jones e Shaw l’Antikytera sul treno in Francia. Jim Broadbent sperava di recuperare il suo ruolo (il prof. Stanforth, originariamente interpretato da Deholm Elliot) dal precedente episodio: il personaggio però non è stato considerato. Spiace per l’attore, non per gli spettatori. Tornano invece John Rhys-Davies (Sallah, l’amico egiziano di Indiana) e, in una “reunion” un po’ stucchevole, Karen Allen (Marion). Il sicario Hauke è interpretato da Olivier Richters, culturista olandese alto 2 metri e 18: esattamente come Richard Kiel, lo “Squalo” che terrorizzava Roger Moore nei film di 007.
Nelle scene ambientate nel 1944, Mikkelsen ringiovanisce di 25 anni con gli effetti CGI (che lo fanno sembrare una bambola di cera); Indiana Jones ha invece il corpo di Anthony Ingruber, con applicato il volto computerizzato di Ford.

Il cronografo nero di Voller è lo stesso modello usato dai sommergibilisti della Kriegsmarine, ma la ditta non ha partecipato al battage pubblicitario; che è invece stato fatto con l’orologio americano indossato da Indy. Dice, nel ’69, di averlo ereditato dal padre: trattandosi d’un quarzo (i cui primi esemplari da polso si stavano diffondendo da pochi anni), è improbabile. La sorpresa dello scheletro di Archimede con un orologio al polso è affine (ma deve trattarsi di una coincidenza) con una gag del terzo episodio di “Non ci resta che il crimine”: la scoperta d’una foto di Vittorio Emanuele III che indossa fieramente uno smartwatch.
Se i primi tre film (diretti da Spielberg fra il 1981 e il 1989) dell’archeologo più celebre della storia del cinema erano tutti riusciti, avevano una loro grazia (nonostante la violenza dilagante, soprattutto nel secondo) e soprattutto grinta, il quarto (“Il regno del teschio di cristallo”, diretto ancora da Spielberg – una delle sue prove peggiori – nel 2008) si era rivelato un ritorno tutt’altro che necessario (considerando poi che un film in cui ci sono Shia La Boeuf e Jim Broadbent non si augura a nessuno). Harrison Ford è sempre stato un grande divo, ma non è mai stato un attore: per di più era in un periodo di crisi, e (non avendo mai imparato a recitare) non lo nascondeva. Questo quinto episodio, “Il quadrante del destino”, è un netto miglioramento. Più riflettuto e meno grossolano; ritmato (non sempre), vivace, ma anche tanto scemo. La parte finale a Siracusa – al di là dei soliti luoghi comuni: quando gli uomini non stanno fuori dal bar per fischiare alle ragazze, gli italiani fanno sempre processioni col santo in spalla, dicono “buoggionno” facendo il gesto delle grucce e ogni singolo bambino ha in testa più brillantina di tutto il cast di “Grease” – è la sagra del ridicolo involontario.
È un film simpatico, se si ha pazienza con le autocitazioni un po’ pedanti (la frusta di Indy, la fobia di Indy per i serpenti, la frase “questo dovrebbe stare in un museo” ripetuta da Indy ogni volta che qualcuno si avvicina un reperto) e col fracasso.