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Inizia l’anno scolastico. Nell’indifferenza della politica

di Gennaro Malgieri
9 Settembre 2020
in Home, Pòlis
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A una settimana dall’inizio dell’anno scolastico, il caos imperversa negli istituti, tra i docenti, nelle famiglie. Non è ancora certo dove è come riapriranno le scuole. Tra gli effetti perversi e concomitanti dell’autonomia scolastica e di quella regionale, ognuno fa quello che vuole. Da qualche parte le lezioni sono già iniziate, altrove, come in Campania, la campanella suonerà il 24 settembre, salvo ulteriori deroghe locali. Ci si chiede se, per i noti motivi logistici, di reperimento degli insegnanti (ne mancano sessantamila), e mettiamoci pure lo “scudo penale” per i presidi, non era il caso di rimandare tutto agli inizi di ottobre con il naturale prolungamento estivo ed il commesso accorciamento delle vacanze invernali. Misteri della pubblica istruzione.

Nessuno, al momento sa come comportarsi: i banchi avranno o no le rotelle (esilarante!), i bambini più piccoli dovranno indossare durante le lezioni la mascherina che, come dicono fior di medici, è pura utopia che la portino per quattro o cinque ore, soprattutto coloro che hanno tra i sei e i dieci anni, dove verranno reperiti tutti supplenti che hanno dato la loro indisponibilità in mancanza di un piano certi di sicurezza (che peraltro nessuno può garantire)? E gli assembramenti in entrata ed in uscita come verranno evitati? Un “vigile” scolastico è immaginabile? Ed è altrettanto immaginabile che se un solo alunno, professore o impiegato contraesse il Covid l’istituto intero dovrebbe mettersi in quarantena?

Interrogativi che avrebbero dovuto essere risolti con linee-guida ponderate, studiate ed emanate per tempo: ci si rende conto che sono stati persi all’incirca sei mesi senza approntare un piano di emergenza che garantisse, al di là dell’ umana impossibilità il regolare svolgimento dell’attività didattica.

Ma c’è qualcosa di più grave che dovrebbe tenere in apprensione e che invece non compare nel dibattito pubblico: la qualità dell’insegnamento. Si pensa che tutto vada in automatico. Ma la scuola sta morendo non soltanto per l’inadeguatezza di fronteggiare il Covid, quanto per i programmi che vengono svolti legati ad una concezione astratta  dell’insegnamento, dell’apprendimento, della formazione delle giovani generazioni. L’ignoranza regna sovrana; il confusionismo ideologico ha generato mostruosità didattiche continuatrici di ciò che veniva teorizzato nel famigerato Sessantotto.  Il “nuovo corso scolastico”, la stessa concezione del sapere  in voga in Occidente,  si sono imposti attraverso la veicolazione dell’ideologia egualitaria che prometteva una società nuova connessa ad una umanità libera ovviamente anche nel campo della cultura.

Dalle molte riforme scolastiche susseguitesi nell’ultimo cinquantennio almeno in Italia – tutte volte a peggiorare l’istruzione – è venuta fuori una forma di insegnamento e di apprendimento senza passato, priva di memoria, fondata sulla nullificazione del pensiero critico e volta ad accrescere un nozionismo “basico” per disavventura degli studenti propedeutico al dispiegamento di fantasiose facoltà universitarie che non offrono assolutamente nulla nella prospettiva di esercitare una professione. Naturalmente la cultura classica è stata sacrificata alla glorificazione di una pseudoscientificità che è uno dei motivi dell’abbandono degli istituti formativi italiani per quelli stranieri da parte di molti studenti o neo-laureati.

La scrittrice britannica Dorothy Leigh Sayers (1893-1957), piuttosto sconosciuta in Italia, autrice della migliore traduzione in inglese della Divina Commedia, divenne celebre  per una conferenza tenuta nel 1947 a Oxford: The Lost Tools of Learning. Gli “strumenti perduti”, di cui parla il titolo, sono quelli dell’educazione classica. E proponeva  – da studiosa di medievistica –  un’organizzazione degli studi, dalla prima infanzia fino all’inizio dell’età adulta, fondata sull’antica  divisione tra le arti del trivio (grammatica, logica, retorica). Potrebbe essere ritenuta bizzarra la proposta, ma non tanto se si considera che il primo fallimento scolastico  che di solito si registra nei discenti è nella difficoltà di fornire gli strumenti mentali necessari all’apprendimento. E, sia pur semplificando, la riforma scolastica di Giovanni Gentile si fondava proprio sull’intento di sanare questo iato unitamente alla mancanza di “pensiero critico” nelle giovani generazioni. Nacque così la scuola per tutti, abbienti e meno abbienti, ritenuti secondo il valore dimostrato meritevoli di accedere a scuole che il classismo dell’epoca precludeva a coloro che appartenevano ad un’Italia ritenuta ingiustamente “minore”. Oggi di quella riforma, copiata ed adattata a tutte le latitudini, non resta sostanzialmente più nulla. La scuola è vuota, come le culle. E l’immiserimento morale e culturale del nostro Paese – ma anche di buona parte dell’Occidente – lo si deve al cedimento dell’istituzione formativa più importante da millenni a questa parte.

Ernesto Galli della Loggia ha dedicato un saggio tagliente e crudo al disfacimento scolastico: L’aula vuota (Marsilio), un testo che docenti, politici, intellettuali dovrebbero religiosamente meditare, magari tremanti un po’ di fronte alle verità che rivela. Già tempo fa Galli della Loggia, dalle colonne del “Corriere della sera” auspicò un leggero innalzamento della cattedra su un predellino, come una volta, tanto per ribadire la necessaria ed opportuna distanza tra docenti e discenti, ricordando, anche simbolicamente, il principio di autorità al quale conformarsi nell’educazione scolastica. Nel suo libro, lo storico animato da vena polemica, asserisce: “La cultura alla fine significa semplicemente la possibilità per ognuno di noi di uscire dalla propria particolarità e di mettersi in relazione con il mondo passato e presente, con tutti i suoi pensieri, i suoi protagonisti e i suoi fatti, raggiungendo così una pienezza di vita altrimenti impossibile”. Chi può dire che oggi la scuola, così come è strutturata, con la sua pedagogia “matrigna”, con i suoi testi davvero “vuoti” introduca alla relazione con il passato e il presente? Il passato, invero, è espunto; del presente c’è solo cronaca di moneta grossa; il futuro nemmeno lo si riesce ad immaginare. E così nelle menti dei giovani non trovano posto letteratura e poesia, storia e geografica, filosofia e musica, arte e scienze, ma soltanto le loro parodie.

“È impossibile – osserva Galli della Loggia – immaginare l’istruzione senza collegarla ad una trasmissione di valori, di principi e di conoscenze, che non abbiano in qualche modo lo sguardo rivolto all’indietro: che cos’è questa lingua che parlo? Che cosa c’è stato prima di me? Che cos’è questo Paese e questo Stato di cui sono cittadino? Che rapporto ho con il mondo?” Insomma, senza conoscere la continuità che ci ha fatto ciò che siamo può accadere che “i nuovi venuti, la generazione più giovane, non sapendo nulla del mondo in cui arrivano lo mettano a soqquadro, lo lascino andare in rovina, e per pura e semplice incoscienza lo distruggano”.

La “riformite” ha distrutto  la scuola. E le conseguenze anche pratiche di tale dissolvimento le pagherà una società che attonita guarda ad una emergenza sanitaria domandandosi se questa potrà essere il colpo di grazia del sistema educativo italiano.

Tags: coronavirusErnesto Galli della Loggiascuolascuola italiana
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