Marchionne, l’incontrastato capo dell’asfittico gruppo Fiat, è uomo troppo abituato al rasserenante tran-tran della vita svizzera. Dove abita e dove paga (poche) tasse.
La cronica mancanza dei week-end all’Indiana Jones lo hanno convinto che, al massimo, la fauna possibile da incontrare sulla propria strada sia rappresentata da qualche barboncino elvetico al guinzaglio di una cotonata sessantenne o dalle proverbiali mucche svizzere. Quelle delle cartoline e del cioccolato al latte.
Si sarà stupito quando, spedito un invito istituzionale, si è trovato al cospetto di una sorta di Mamba (politico). Il cosiddetto serpente dai sette passi! Incarnato da una bella signora dai toni e dai modi gentili, tutta tesa verso la tutela della democrazia e delle istituzioni resistenzial-repubblicane.
La similitudine, che nulla ha di offensivo sul piano personale, si dirige verso la presidente della Camera. La quale, invitata a visitare uno stabilimento del Gruppo, con scatto fulmineo, si è proiettata al tallone dell’augusto manager. E lo ha delicatamente morso al polpaccio.
Lo ha fatto rifiutando l’invito “per motivi istituzionali”, ma condendo l’istituzionale con una spataffiata di critiche alla gestione del Gruppo. Critiche verso l’occhio di riguardo che Fiat, da tempo, ha nei confronti delle sue fabbriche estere. Critiche verso i posti di lavoro che, in Italia, con questo vezzo si perdono. Critiche verso il cinico disinteresse che l’azienda torinese avrebbe nei confronti dell’economia nazionale. Dimenticando, però, che questa forma di sabaudo menefreghismo viene da lontano. Fu proprio l’avvocato Agnelli a continuare, sei lustri or sono, la produzione della 126 in Polonia. Nonostante allora, il comunismo furoreggiasse ancora.
Intendiamoci, non è che abbia proprio torto. Specie se si considera il passato Fiat, ricco di protezioni monopolistiche prima e di contributi statali poi. Ma che ce lo venga a raccontare una signora che ha passato la vita a combattere aspramente sui sofà dei salotti, in nome dei paesi sottosviluppati, ci pare un po’ troppo grossa per digerirla in un boccone. Impiantare le fabbriche all’est, o in Turchia (vedi Fiat Fiorino), non è in linea con gli aiuti a quel Terzo mondo che la presidente di sinistra (come di sinistra erano Agnelli, sua sorella sindachessa dell’Argentario ed amico della sinistra paramontiana è il pupillo del loro tinello da the: Montezemolo) ha sempre vagheggiato?
Eppure qualcun altro, tanti anni fa, fece una visita al Lingotto. Invitato dal vecchio Agnelli. E se ne andò disgustato, dopo aver visto in che condizioni l’azienda faceva desinare gli operai. Ma non fece scenette istituzionali o critiche figlie del nulla-pensiero. Mandò, invece, al Prefetto di Torino, questo telegramma: “Comunichi al senatore Agnelli che nei nuovi stabilimenti FIAT devono esserci comodi e decorosi refettori per gli operai. Gli dica che il lavoratore che mangia in fretta e furia vicino alla macchina non è di questo tempo fascista. Aggiunga che l’uomo non è una macchina adibita ad un’altra macchina” (Mussolini, 16 luglio 1937).