
Neppure il ritrattista francese Gaston Vuillier, illustrando le opere di Chateubriand e di Mérimée, a termine del viaggio nelle Baleari, in Corsica e in Sardegna dopo aver raccolto i vari articoli racchiusi nel celebre libro intitolato alle sue “Impressions de voyage” pubblicato a Parigi nel 1893, osò tanto. Impressioni e istantanee di un’isola in particolare, la Sardegna, che a cavallo di fine ottocento e ad inizio del ‘900, doveva apparigli come l’ispirazione dell’antichissima eredità dei luoghi e dei costumi che visitò; scorgendone l’eredità antropologica, evocativa, di un impatto emozionale descritto con dovizia nella sua opera. Ci piace pensare che nella miniserie horror di quattro puntate “Ischidados, I risvegliati”, progettata per tv e web da Chunk Collective, un gruppo di videomaker torinesi, possano riuscire a vincere lo scontro dualistico tra zombie e le figure tipiche del carnevale barbaricino, i Mamuthones, proprio questi ultimi. Non è solo una questione di tifo. Il loro è uno stile di vita che non si è raggrinzito indietreggiando alle lusinghe sfavillanti del turismo costiero.
La scenografia e gli episodi della saga horrorifica sono ambientati nel cuore antico dell’isola. Nella piccola regione del “Ladakh italiano”, dove le suggestioni ancestrali sono ancora legate al ciclo della terra e delle stagioni: l’area che comprende le Barbagie di Ollolai, Belvì, Aritzo e Seulo, la zona intorno a Nuoro e il territorio che corrisponde all’antica Barbagia di Bitti. In quei luoghi dove sorge Mamojada e dove l’attività di intagliatore del legno di Franco Sale, depositario delle antiche tradizioni popolari sarde, mamuthone e scultore di maschere, raccoglie la sfida dei riti dell’inadeguatezza moderna. Sbeffeggiandola con la sua ricerca approfondita e la divulgazione delle profonde radici della tradizione mamojadina. Stralci di vita e costume che hanno ispirato il regista della serie horror Eugenio Villani e l’ideatore del progetto Igor De Luigi? Avvalendosi della supervisione dello scrittore Marcello Fois, autore del romanzo “Stirpe” (anno 2009, Giulio Einaudi Editore, collana Supercoralli, pp.250), voleva evidentemente dar voce anche a chi pensa, come nello scritto di Fois che il metallo è una cosa viva, capendo le motivazioni della mano che lo forgia. Una scelta azzeccata.
Poco importa se tutto il filone delle puntate si riduce alla lotta ad uno stuolo di morti viventi, parecchio simili all’immaginario collettivo dei nerd in giacca e cravatta che hanno dato prova di mala gestione del territorio a partire dagli anni settanta. Partendo poi, questa è una chiave di lettura, da quel “compromesso storico” che riuscì a soggiogare la società sarda e la Penisola e che prevedeva due leve devastanti: una nel settore agricolo, con l’attuazione della legge “De Marzi–Cipolla”, e l’altra con l’industrializzazione forzata senza regolamentazioni in prossimità delle aree naturalistiche, entrambe di ispirazione comunista; a cui faceva seguito un ulteriore scempio, per evitare ogni ritirata, chiamato “equo canone”. E allora, perché una volta tanto non provare simpatia per quei soldati della pace che allietano il Carnevale di Mamojada, risalenti all’epoca nuragica, ai riti ancestrali della fertilità, riconducibili forse ai riti dionisiaci del Mediterraneo e alla nostra coscienza? Gaia, una turista in vacanza sulla costa, fuggendo nell’entroterra sardo dovrà vedersela con un’epidemia che ha decimato la popolazione tramutandoli in non morti alla ricerca di carne umana. In suo soccorso giungeranno le maschere più amate della Sardegna.
Nella realtà, lobotizzati come siamo da costumi di diversa natura, possiamo ancora salvarci dalle sovrastrutture di comando, intrecciate in alcuni casi al potere politico ed artefici del diritto di prelievo sui ceti produttivi della società, volte allo smantellamento simultaneo delle trasmissioni di memorie? Solo attraverso la riscoperta dell’antropologia dell’essere e dell’agire possiamo riconquistare il nostro futuro. Canti, balli e volontà, senza tempo.