Per il premier israeliano Bibi Netanyahu non c’è pace e non c’è tregua. Da mesi il suo governo sostenuto dai partiti nazional-religiosi è investito da continue proteste contro l’annunciato e molto contestato pacchetto di riforme sulla giustizia. A centro del dibattito la legge per impedire ai magistrati della Corte suprema di esprimersi sulla “ragionevolezza” delle decisioni dell’esecutivo. Per le opposizioni uno stravolgimento degli equilibri tra i poteri mirato a subordinare la magistratura al potere politico e prodromico ad una svolta autoritaria. Accuse a cui Netanyahu e i suoi rispondono con sdegno, giustificando la loro decisione come una misura necessaria per la sicurezza dello Stato e della difesa della democrazia.
Insomma, una polemica incandescente che sta scuotendo le fondamenta stesse della società israeliana sino ad investire il suo pilastro principale, le forze armate, dal 1948 ad oggi un vero esercito di popolo sempre (Libano a parte) temuto e vittorioso. Uno strumento bellico ottimamente organizzato strutturato su un contingente permanente relativamente piccolo (161mila soldati) sostenuto, come in una virtuosa “fabbrica sociale”, da 425mila volontari riservisti continuamente addestrati e periodicamente mobilitati. Un braccio militare flessibile quanto indispensabile, fortemente motivato e assolutamente rappresentativo della complessità israeliana. Ed è proprio da questo segmento che sono iniziati i veri problemi…
Dalla scorsa primavera l’incantesimo si è rotto e un numero crescente di riservisti ha iniziato a protestare e a contestare apertamente il governo. Tutto è iniziato il 15 marzo quando i veterani dell’Operazione Entebbe hanno bloccato l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv mentre il premier partiva per Berlino. Una coincidenza non casuale: lo straordinario raid del luglio 1976 che salvò i 247 ostaggi sequestrati da terroristi palestinesi e tedeschi nell’Uganda di Idi Amin, era guidati da Yonathan Netanyahu, il fratello di Bibi, caduto eroicamente guidando l’incursione. In onore del loro comandante i reduci — gente tosta ma con un’inattesa vena goliardica — hanno circondato lo scalo con un convoglio guidato da una vecchia Mercedes nera, una replica dell’auto del dittatore ugandese che i commando usarono in quella notte fatidica per raggiungere il velivolo dirottato. Sui cartelli, un ritratto di Yonathan, accompagnato da queste parole: “Yoni si è sacrificato per il Paese. Bibi sacrifica il Paese per se stesso”, o “Yoni si vergogna”. Il classico cerino che ha incendiato la classica prateria.
Settimana dopo settimana le proteste si sono moltiplicate e sempre più riservisti (compresi quelli appartenenti alle unità d’elite interforze e ai preziosi reparti specializzati nelle cyberwars) hanno iniziato a rifiutare le chiamate, firmare petizioni contro la controversa proposta di legge o a dimettersi. Una vera escalation. Lo scorso 18 luglio centinaia di militari, aderenti al gruppo “Fratelli e sorelle d’armi”, hanno presidiato per ore l’entrata del quartier generale di Tel Aviv; il giorno dopo 50 ufficiali dell’unità 8200 (i “maghi” della guerra elettronica) hanno abbandonato la divisa e questo fine settimana altri 500 riservisti attivi nell’Intelligence militare hanno annunciato con una lettera aperta alla stampa la loro decisione di sospendere il servizio sinchè “non verranno fermate le mosse dittatoriali che violano il contratto tra il governo di Israele e i suoi cittadini”. Insomma, un gran casino che incrina la storica solidità delle forze armate e rischia d’indebolire i comparti più delicati del complesso militare.
Apparentemente i partiti di maggioranza sembrano sottovalutare la situazione e rilanciano la polemica mettendo in onda video letali, tra tutti una clip in cui un fantaccino chiede supporto aereo sentendosi rispondere “sei pro o contro la riforma?”, poi il silenzio e uno sparo fatale. Più lucidi e preoccupati i vertici militari. Giovedì scorso il generale Tomer Bar, capo di stato maggiore dell’Aeronautica, ha ammesso sconsolato “se continuiamo su questa strada ci vorranno anni per riparare i guasti”.
A poco poi servirà l’ultima trovata del governo: l’arruolamento forzato di esuli russi e ucraini di religione israelitica fuggiti dal conflitto in atto. Negli ultimi mesi un migliaio di profughi di guerra sono stati inquadrati nelle file della fanteria e spediti di gran fretta nei territori occupati. Immaginiamo con scarso entusiasmo e poca o nessuna voglia di sparare o rischiare di farsi accoppare.