A Brescello, nell’unica piazza presente in paese risaltano due statue, una davanti l’altra. Si guardano, con aria di sfida. Da una parte l’effigie di un corpulento uomo baffuto, Peppone – il sindaco comunista di un paese di comunisti – dall’altro, invece, l’imponente sagoma del parroco della comunità, Don Camillo.
I due personaggi, divenuti eroici nella trasposizione cinematografica del secondo dopoguerra, sono il frutto della geniale penna di Giovannino Guareschi, giornalista ed intellettuale non allineato al conformismo democratico dell’epoca. Anticomunista viscerale, monarchico di ferro e fine scrittore, Guareschi raffigurò nei suoi racconti usciti a puntante sul “Candido” il “piccolo mondo” (come amava definirlo lui) di Peppone e Don Camillo. Amici-nemici di un ‘Italia provinciale, rurale, ancestrale. Verace nei contenuti, sanguigna nella forma di “esporli”.
Un microcosmo tutto italiano all’interno della Bassa padana. Due mondi a confronto divisi da un muro, la guerra fredda, i patti atlantici e di Varsavia, le disposizioni (e – a volte – imposizioni) partitiche e vaticane. Due mondi, però, che si ritrovavano a discutere non di geopolitica o di imminenti conflitti, ma di Casa del popolo e giardini del fanciullo, terreni comunali e mezzadri, matrimoni civili o religiosi, bandiere monarchiche o campane per salutare un caduto.
Piccoli grandi mondi di un Paese arretrato ma idealista, povero ma orgoglioso. Delle proprie idee, della propria storia. Oggi, dopo il crollo delle ideologie, non ci restano che macerie. Non materiali come ai tempi dei racconti Guareschiani, ma morali e “spirituali”.
Se la politica si aggrappa al perenne inciucio degli statisti del terzo millennio, la società civile annaspa tra la retorica del politicamente corretto e l’indifferenza omertosa di gramsciana memoria. Per questo, vedere la Brescello che fu di Peppone e della sua “banda” commissariato per ‘ndrangheta è un colpo al cuore. Lì dove una volta ci si “chiariva” con salutari scazzottate tra opposte fazioni, oggi intrallazzano affari illeciti cosche criminali. Proprio lì, dove Peppone pronunciò il discorso contro ogni “retorica guerrafondaia” trasformatosi in un inno alle radiose del maggio del ’15 ed alla appartenenza fideistica a Casa Savoia, si pianificano ritorsioni, estorsioni o – peggio ancora – azioni delittuose.
E proprio in quella piazza, magari nello spazio antistante della Chiesa di Don Camillo, qualche ‘ndranghetista decideva su chi riversare centinaia di preferenze in vista delle prossime elezioni amministrative. A Brescello, dove le favole diventavano realtà. E un ligio sindaco comunista si scontrava con un burbero prete di campagna che dialogava con il Cristo in croce, sfidando ordini costituiti e gerarchie romane. Censure e bigottismo, reazionari e radical-chic.
Restano le statue, passano i costumi, le tradizioni, gli uomini. Lì dove c’era un mondo identitario di persone perbene ed idealiste, oggi c’è profumo di ‘ndrangheta. Nel cuore rosso dell’Emilia Romagna va in frantumi un universo, una dimensione metafisica composta da sapori, sentimenti, colori. A forti tinte, profondi.
Simboli di un tempo remoto, retaggi di una fiaba radicata in un lembo di terra magico macchiato dal marchio più infamante. E proprio lì, dove Peppone e Don Camillo scagliavano la loro sfida alle stelle, tra una “bonaria” lite e l’altra, oggi non restano che le infamanti inchieste e il commissariamento per mafia.
Elementi paradigmatici di un’Italia in decadenza. Il fiume – non da oggi – ha rotto gli argini. E proprio nel paese che fu di Peppone e Don Camillo, trovare due eroi che navighino nel pieno della tormenta verso l’ignoto ed oltre, appare l’impresa più difficile.