Dall’ombra, da cui è immeritatamente circondato, merita di essere risollevato e preso nella dovuta considerazione, il veneziano Piero Foscari (1865 – 1923). Gli è dedicata una “voce” nel “Dizionario biografico degli italiani” (vol. 49°, 1997), gravata da espressioni di scarsa serenità critica.

Due esempi sono probanti. Nel segnalare la presenza di Foscari nel corpo di spedizione impegnato a Zanzibar nel 1896, si citano sue corrispondenze giornalistiche sui metodi “brutali” del colonialismo inglese ma gli si rimprovera – come se avesse potuto, in un clima pericoloso, con ramoscelli d’ulivo – “una dura repressione” condotta nel novembre dello stesso anno ai responsabili di un agguato a Mogadiscio contro militari italiani. Per l’estensore del contributo biografico, Celso Chinello, “tale impresa – per cui gli fu concessa la medaglia d’argento al valor militare – costituì per lui motivo d’orgoglio e segnò [?] la sua formazione politica nazionalista”.

Altro momento di lettura prevenuta è quella in cui, dopo aver riconosciuto Foscari, ricco di “una cultura tecnica di modernità stupefacente”, tale da consentirgli di tracciare “il supporto teorico di Porto Marghera come porto di base”, lo si condanna faziosa. E’ censurato per “la retorica nazionalista” e per “il dannunzianesimo sfrenato” congiunti ad “un moralismo spesso venato di qualunquismo” e, passaggio cruciale e marchio indelebile di infamia, da “un rifiuto aprioristico dei nuovi processi politici innescati dalla crescita del movimento socialista”.
Al di fuori di questa “scomunica”, Foscari sin dal 1903 “si inserisce [??]” nel movimento nazionalista “sino a diventarne uno dei promotori e dei dirigenti più impegnati”. Chinello passa poi a ricostruire, fornito di “penna blù”, la carriera pubblica dell’ufficiale di Marina. Ricorda la bocciatura subita a Venezia nelle elezioni politiche del 1904 ed il successo conseguito nel 1909, “con il sostegno dei clericali” e l’ostilità di Giolitti e nel 1913 con il 78,13% dei consensi sempre nel collegio di Mirano.
Nel frattempo è in prima linea nella organizzazione e nella strutturazione del movimento nazionalista. Chinello trova modo di rimproverarlo per il suo irredentismo “talmente aggressivo” da subire divieti di ingresso nel territorio del regno asburgico.
Compiuta l’esperienza nella guerra in Libia, con il grado di capitano di corvetta, si schiera logicamente nella campagna interventistica con ripetuti interventi giornalistici.
Dichiara la sfiducia del suo gruppo a Salandra nel 1916 ed è poi per oltre 3 anni (giugno 1916 – giugno 1919) sottosegretario alle Colonie nei governi Boselli ed Orlando.
Firma “come testimone” , atto sottovalutato, la concessione per la costruzione del porto di Marghera e per la zona industriale. Collabora nel settembre 1919 all’occupazione di Fiume e partecipa alle iniziative antigiolittiane. E’ primo dei non eletti nella circoscrizione di Venezia alle politiche del 16 novembre 1919.
Eloquenti ed indicative sono le parole, autentico testamento, pronunziate il 4 marzo 1923, a poco più di un mese dalla scomparsa (7 aprile), in occasione dell’ultima seduta del Comitato centrale nazionalista prima della fusione con il Partito nazionale fascista. Essa era – a sentire Chinello – “imposta”, mentre per onestà e limpidezza era dovuta all’”amore che tutto dà e nulla chiede” e “disciplina che è patriottica abnegazione”.
La morte impedisce la convalida a senatore, decretata il 2 marzo 1923, “come combattente della prima ora per la ricostruzione politica del paese”.
“Un affettuoso reverente pensiero” gli è tributato nel giugno 1928 dall’Associazione tra gli antichi studenti della R. Scuola Superiore di Commercio di Venezia dopo l’inaugurazione, avvenuta in aprile, di un busto collocato in suo ricordo in una sala del Museo coloniale alla Consulta.
Nella presentazione ad un volume, apparso nel 1988, di Maria Damerini (Gli ultimi anni del Leone. Venezia 1929 – 1940), Mario Isnenghi, svalutandone il ruolo circoscritto nell’area locale, lo ha considerato “il maestro e il simbolo per due generazioni di veneziani di destra”.
Di tutt’altro segno e di tutt’altra intonazione nella loro apertura di idee e di principî sono il 16 maggio 1923 le parole pronunziate, nell’aula di Montecitorio, dal deputato ascolano del Partito Popolare, Guglielmo Sandroni : “Errerebbe chi si figurasse un Foscari che, nella visione abbagliante di una Italia intenta a rinnovare i suoi destini d’impero, nel suo fervido culto per la rinascita delle più nobili forze spirituali, delle più alte manifestazioni civili e politiche, dimenticasse la oscura fatica, l’oscuro dolore degli umili. Se egli con ardore di cittadino e con fierezza di soldato vagheggiò un’Italia più grande, egli la vagheggiò soprattutto perché in un’ Italia più grande fosse al popolo italiano “non polo di Iloti”, resa più ampia, più confortevole, più santa la vita; ed in questo egli si riallacciava veramente a quegli uomini che gettarono le fondamenta dell’Impero di Roma”.