Trionfalmente rientrato dal dorato esilio francese ed acclamato come il salvatore della patria pidiota, il novello Cincinnato cattocomunista Enrico Letta non ci ha messo molto a dimostrare di che pasta, alquanto scadente, sia fatto. Malamente scottato dalla nota vicenda di “Enrico stai sereno”, il Letta nipote stavolta ha abbandonato i panni del pacato secchione di buone maniere appresi dallo zio sfoderando un piglio per lui del tutto inedito: dente avvelenato, arroganza, aggressività verbale, ricerca spasmodica di visibilità.
Peccato però che il suo approccio sia stato sinora così maldestro e sguaiato da rischiare di trasformare l’agognata vendetta in una nuova rovinosa sconfitta. Già l’esordio era stato abbastanza sconcertante: puntando tutto sulle pulsioni identitarie della base militante, con l’evidente intento di compattare le fila, aveva posto alla base del suo programma politico i soliti temi-parola d’ordine della sinistra buonista e visionaria: ius soli, immigrazione, ecologia. Per Enrico Letta sarebbero queste le priorità di un paese in piena crisi economica e sociale a causa di una gravissima pandemia gestita in modo folle anche dal suo partito.
Poi, come tutte le sinistre che si rispettano, per compattare la truppa ha subito indicato il nemico del popolo: il sempre detestato Matteo Salvini, secondo Letta una specie di abusivo infiltratosi non si sa bene come in un governo sul quale lui avrebbe una specie di ius primae noctis e un diritto di veto nascente non si sa bene da dove. Fatto sta che tra provocazioni, sparate e attacchi al veleno ha innescato una bega da cortile continua e fastidiosa nella quale Salvini ha addirittura finito per fare la figura di quello ragionevole (il che è tutto dire).
Mario Draghi, visibilmente seccato, si è ben guardato dal seguirlo su questa strada e ha dovuto alla fine richiamarlo all’ordine; prima pubblicamente bloccando senza appello la sua ultima bizzarra trovata, poi in privato con una telefonata che pare sia stata tutt’altro che amichevole, nonostante i resoconti alla melassa fatti trapelare.
Proprio quest’ultima vicenda, parliamo ovviamente della sgangherata proposta sulle imposte di successione, ci permette di capire quanto sia superficiale e dilettantesco l’approccio di Enrico Letta e come l’immaginario enfant prodige cattocomunista stia solo facendo demagogia da quattro soldi proprio come un grillino qualunque. La squinternata idea di Letta sull’imposta di successione in realtà non è niente di nuovo: si inserisce nel glorioso filone della sottocultura cattocomunista che, considerando la ricchezza una colpa, da sempre cerca di usare la leva fiscale come una clava per punire: togliere ai “ricchi”, che devono piangere, per dare ai “poveri”.

Di nuovo stavolta c’è il fatto che il gettito extra dovrebbe essere utilizzato per erogare ai giovani di 18 anni una “dote”, cioè un gigantesco reddito di cittadinanza per avviarli comodamente alla vita. In pratica, come recita l’insensato slogan confezionato dallo staff di Enrichetto, i cosiddetti “ricchi” dovrebbero “restituire” per il bene comune una parte di quello che hanno come se lo avessero rubato a qualcuno.
Mario Draghi ha liquidato la proposta con una frase che è una sentenza “non è il momento di prendere i soldi ai cittadini ma di darli”, ma i Robin Hood pidioti hanno deciso di tirare diritto riuscendo, come sempre, ad imporre il tema nel dibattito pubblico. Ovviamente si sono guardati bene dall’occuparsi degli aspetti tecnici e concreti del problema, buttando tutto in una melensa e surreale caciara moralista sul fatto che sia giusto che chi ha di più dia a chi ha di meno, sulla necessità astratta di riequilibrare le disuguaglianze della società, sull’egoismo dei “ricchi”, sino a mettere in discussione la legittimità del diritto di trasmettere per successione i propri beni, cioè un istituto che esiste da sempre in tutte le società, documentato sin dal codice di Hammurabi.
Le argomentazioni prontamente sfornate dal solito caravanserraglio dei moralmente superiori che pensano al bene comune sono, come sempre, manipolate e truffaldine: ci si indigna, ad esempio, per il fatto che in Italia l’imposta di successione sia più bassa che altrove, evitando accuratamente di ricordare che qui è molto più alta la tassazione dei redditi e che i beni che verrebbero colpiti sono già pesantemente tassati. In pratica i cervelloni del PD, che evidentemente ignorano Einaudi, vorrebbero contraddire uno dei principi fondamentali di qualsiasi politica fiscale: si più scegliere se tassare il reddito o il patrimonio e definire la proporzione tra i due sistemi di imposta, ma non si possono gravare tutti e due contemporaneamente con imposizioni troppo alte, pena l’affossamento dell’iniziativa economica e la disincentivazione del risparmio. E in Italia la tassazione complessiva è già una delle più alte del mondo.
Particolarmente ridicola è l’argomentazione secondo la quale la “dote” lettesca sarebbe un sacrosanto risarcimento per i “giovani” ai quali staremmo lasciando l’onere del debito pubblico da ripagare. Una vecchia bufala della propaganda europeista che, assimilando il debito sovrano ad una cambiale, viene usata per giustificare le politiche gravemente recessive degli ultimi anni (bufala spesso ripetuta anche da Giorgia Meloni, alla quale ci auguriamo venga spiegato prima o poi cos’è e come funziona il debito sovrano).
Argomentazioni talmente strampalate che è persino difficile commentarle seriamente. In realtà al contatto con la realtà, ben più coriacea delle chiacchiere che le groupies di Letta ci vorrebbero propinare, la bislacca trovata casca subito, più velocemente del solito asino. Nessuno si è preoccupato di fare un calcolo del gettito ottenibile, assolutamente sproporzionato rispetto al fabbisogno generato dalla “dote”, men che meno si è posto il problema dell’elusione: già oggi i grandi patrimoni sfuggono all’imposta di successione perché i “ricchi”, a differenza dei “poveri” e anche della classe media, hanno accesso a know how e strumenti legali per aggirarla Trust nelle Isole del Canale, B.V. olandesi, fiduciarie lussemburghesi, ecc. ecc. fino a semplici società di comodo anche di diritto italiano.
Un accanimento su questi patrimoni non farebbe altro che incrementare queste pratiche assolutamente legali, estendendole magari anche a chi oggi pensa di non averne bisogno col risultato di prosciugare il gettito. Una semplice rapporto di causa effetto che a quanto pare sfugge ai cattocomunisti, tutti presi a propinare stucchevoli sermoni moraleggianti scomodando anche la dottrina sociale della Chiesa. Ma sappiamo bene come finirebbe: i grandi patrimoni svicolerebbero e nella nassa fiscale immaginata da Enrico letta alla fine ci cascherebbero, bollati come “ricchi,” solo patrimoni costituiti da una casa di proprietà e dai risparmi di una vita.
Certo, una persona minimamente raziocinante potrebbe (e dovrebbe) chiedersi come mai Enrico Letta pensi di trovare questi soldi (lasciando da parte per un attimo l’assurdità dello scopo) grassando i risparmi degli Italiani e non, ad esempio, perseguendo la vera e propria evasione delle multinazionali progressiste che piacciono alla gente che piace, beneficiate da anni da compiacenti concordati al ribasso che sottraggono all’erario centinaia e centinaia di milioni. Oppure come mai non ci si ponga il problema dei paradisi fiscali intra UE, come Paesi Bassi e Lussemburgo, che stanno rastrellando il gettito fiscale delle imprese italiane. Domande retoriche, ovviamente, alle quali l’europeista Letta non si sognerebbe mai di rispondere.
Sia come sia, con la logica di un giapponese nella jungla, il segretario del PD non demorde portandosi dietro una buona parte dei suoi compagni ma non il consenso (virtuale) degli elettori che nei sondaggi, l’unica forma di espressione del consenso politico attualmente possibile, lo puniscono sonoramente relegandolo al minimo storico, superato anche dalla Meloni. La trovata da Robin Hood all’amatriciana di certo non lo aiuterà a recuperare e c’è da scommettere che quando i suoi compagni si accorgeranno di avere grazie a lui le poltrone a rischio non staranno certo sereni.