Tradizione vuole che, soprattutto nei momenti politicamente più caotici, la dicotomia “destra sociale”/“destra liberale” riaffiori struggente nel dibattito di quel mondo che, da ormai quasi settant’anni, gravita attorno alla gloriosa Fiamma Tricolore, missina prima, aennina poi ed oggi, in comodato d’uso, a Fratelli d’Italia.
Non intendo ripercorrere storia (e storiografia) della disputa, perché sarebbe dispersivo (e credo anche tedioso) avventurarsi in tutti i meandri nei quali la stessa, in questo oltre mezzo secolo, è andata ad insinuarsi, fra auliche tesi ideologiche e meno aulici “sgarri” improntati alla real politique. Mi piacerebbe, più che altro, prendendo le mosse dall’ultimo casus belli, costituito dal cosidetto “Jobs Act”, buttar lì qualche spunto di riflessione per il presente e per il futuro, chiedendomi (e cercando di abbozzare una risposta) se e fino a che punto “destra sociale”/“destra liberale” costituisca per davvero una dicotomia e se (ammesso che, per l’appunto, abbia senso definirla come tale) la stessa conservi una sua ragione d’essere ancora oggi, quando sovente si afferma che ormai le categorie della modernità otto-novecentesca sono state annichilite dalle vorticose e radicali evoluzioni del disancantamento weberiano, che introducono alla post-modernità o – comunque – ad una modernità diversa da quella sopra richiamata.
Con riguardo allo “Jobs Act” renziano si sono registrate tre posizioni in seno a FdI. C’è stato chi si è dichiarato contrario al provvedimento in quanto portatore di principi confliggenti con la sensibilità “sociale” della Destra post missina (eppure, oggettivamente, lo “Jobs Act” renziano ricalca in larghissima parte gli enunciati che furono sostenuti per anni nei programmi del Centrodestra, senza che, in quei frangenti, nessuno, in Alleanza Nazionale, si sia mai stracciato le vesti stringendo al cuore dolente una copia della Rerum Novarum di Leone XIII); c’è stato, poi, chi si è dichiarato contrario al provvedimento in quanto composto esclusivamente di principi generali e di amplio respiro (come tutte le “leggi delega”, del resto…); c’è stato, infine, chi, invitato e sfidato a guardarsi allo specchio, ha ritenuto, invece, di votarlo, perché coerente con la progettualità per anni espressa (seppur mai realizzata) dal Centrodestra e perché, con quel voto, la sfida veniva rilanciata al Governo sul tavolo (minato) dei decreti attuativi, al quale, evidentemente, dovrà pur sedersi anche quella Sinistra massimalista che nel “Jobs Act” vede il contrordine a settant’anni di battaglie (e lo “sfanculamento” del potere sindacale che da sempre l’ha sorretta).
Non per un gioco di parole o per amenità fonetiche, ma per cominciare a fare chiarezza su ciò di cui stiamo (o vogliamo) parlare, la dicotomia “destra sociale”/“destra liberale” necessita, anzitutto, di essere aggiustata sotto il profilo squisitamente letterale: via la rima “destra sociale/destra liberale” e procediamo con la più coerente “destra sociale/destra liberista”, affinchè sia subito sgombrato il fastidioso malinteso secondo cui all’inclinazione alla “liberalità” economica si dovrebbe associare (automaticamente e necessariamente) quella politico-culturale (alias ideologica).
“Sociale” e “liberista”, pertanto, costituiscono i due opposti poli ed attributi sui quali si dispiega l’accennata dicotomia. Con riguardo al secondo, vi è una più diffusa e certa cognizione del suo significato, inteso – del tutto sinteticamente e senza alcuna ambizione di esaustività – come motivo sostenitore della promozione dell’iniziativa privata e del libero mercato, in rapporto ai quali lo Stato interviene unicamente attraverso poche e chiare regole di funzionamento; con riguardo al primo, invece, vale forse la pena di soffermarcisi un attimo di più onde correttamente inquadrarlo (soprattutto per quanto rileva per la tematica di questo intervento).
Non credo che l’attributo “sociale” voglia essere inteso da qualcuno come sinonimo di “socialista”, bensì quale richiamo al concetto di “socializzazione”, dottrina, quest’ultima, che, contrariamente a quella socialista, non prospetta l’espropriazione della proprietà privata (sia dei capitali che dei prodotti) in favore dello Stato, ma una loro diversa distribuzione (sotto il profilo sia del godimento che, a monte, della gestione). In particolare, secondo la prospettiva della “socializzazione”, nel rapporto fra imprese e lavoratori, l’entità produttiva apparterrebbe a tutti quei soggetti che concorrono all’esercizio della sua attività, così escludendo il rapporto classico datore di lavoro-lavoratore dipendente. Ogni concorrente all’esercizio dell’attività produttiva, in buona sostanza, finirebbe per partecipare alla gestione dei mezzi ed alla gestione e ripartizione degli utili (ma – a quel punto – anche delle perdite…) dell’attività produttiva medesima. In buona sostanza, ancora, sarebbe pressochè eliminata la categoria dei “lavoratori dipendenti” e ogni lavoratore sarebbe, di fatto, un imprenditore (con conseguente assunzione – come accennato – dei rischi d’impresa…).
Logica vuole, allora, in ultima analisi, che i paladini della “Destra sociale” continuino a restare contrari ai principi espressi dallo “Jobs Act”. Forse, farebbero, però, bene a cambiare le motivazioni della loro contrarietà, rinvenendole (coerentemente con le prospettive della “socializzazione” a cui si richiamano) nel fatto che il “Job Act” renziano offra eccessive ed ingiustificate garanzie a favore dei lavoratori (ancora “dipendenti”), ai quali non viene addossato nessun rischio d’impresa. O forse, è solo il caso che si smetta di parlare di “Destra sociale”, contrapponendola a ciò che viene definito tradizionalmente “liberismo”. Se vogliamo ricercare una categoria buona per i tempi nuovi e se per convenzione e/o comodità vogliamo ripescarla fra quelle otto-novecentesche, vi va di parlare di “produzionismo” ? Magari prima che anche di questa categoria se ne accorga quell’altro Matteo ?
Vorrei correggere anzitutto il preconcetto che l’ideologia socialista “prospetta l’espropriazione della proprietà privata (sia dei capitali che dei prodotti) in favore dello Stato”. Questa prospettazione è propria del socialismo massimalista o rivoluzionario, che vorrei dire : è uno della famiglia (socialista), ma non è tutta la famiglia; vorrei rappresentare che la famiglia (socialista) è ben più affollata e variegata.
Quanto all’idea di corporativismo, vorrei fare rilevare che un’idea simile l’ha sviluppata anche un certo James Meade, con il suo concetto sviluppato nella sua opera “Agathotopia”. http://it.wikipedia.org/wiki/James_Meade
I concetti esposti da questo signore sono stati recentemente ripresi da RENATO BRUNETTA nel suo libro: “La mia utopia. La piena occupazione è possibile”,http://www.ibs.it/code/9788804642398/brunetta-renato/mia-utopia-piena.html, il quale mette a confronto tali teorie con quelle di un tale Martin L. Weitzman.
per la verità mi sono fermato alla introduzione del libro per pressanti altri impegni e quindi non saprei come Brunetta sviluppa il problema.
ma volevo significare che l’idea del “corporativismo” non è solo della “destra sociale” (ovviamente ereditata da precedenti culture, che alla fine della fiera si innestano in quella grande famiglia (socialista) di cui fa parte anche Renato Bruetta.
Guardo con curiosità chi fa queste disquisizioni: destra sociale vs destra liberale (o liberista), proprio quando su Critica Sociale compare: Socialismo, nè sinistra né destra. -Un saggio provocatorio sull’ultimo libro di Jean-Claude Michéa di Alain De Benoist .
-http://www.criticasociale.net/index.php?&lng=ita&function=rivista&pid=page&year=2013&id=0004833&top_nav=titoli_2013
buona lettura.