Chissà se i campioni bresciani dell’antifascismo più ottuso si sono resi conto di essere all’avanguardia nel mondo.
Brescia che da sempre lo è nell’industria, ora può vantare un nuovo primato, avendo preceduto tutti nella nuova vocazione della sottocultura dominante: abbattere le statue per riscrivere la storia possibilmente negandola e cancellandola.
Un’idea un po’ assurda e un po’ perversa che dalle pagine del 1984 di Orwell – “Chi controlla il passato controlla il futuro… Chi controlla il presente controlla il passato” – dopo una significativa anteprima nell’operosa città lombarda è fragorosamente approdata negli Stati Uniti di oggi e non solo.
Quello che sta succedendo negli ultimi mesi in America a Brescia (non a caso finita per questo anche sul New York Times) succede già da ben 72 anni: è dal settembre 1945, infatti, che si dibatte della sorte del Bigio, la gigantesca statua di marmo bianco, opera dello scultore novecentista Arturo Dazzi, che dopo il tentativo dei partigiani di abbatterla con l’esplosivo fu precauzionalmente rimossa dall’amministrazione militare alleata, imbeccata da una simbolica delibera della giunta comunale del CLN, e confinata in un deposito comunale da dove non è mai più uscita.
La sua colpa è di essere stata ribattezzata, ad un certo punto della sua vita, col nome di “Era Fascista” anche se, in realtà, era stata pensata come simbolo della gioventù d’Italia alla quale era originariamente dedicata.
Oggi nella metafisica Piazza Vittoria, che è il luogo dove il colosso di Dazzi dovrebbe trovarsi, c’è solo un piedistallo vuoto, simbolo perfetto del vuoto culturale di chi amministra la città e della sua incapacità di affrontare seriamente i problemi.
(Per la verità al momento il piedistallo del Bigio è occupato da un nuovo inquilino “provvisorio”, che forse diventerà abusivo, ma questa è un’altra storia).
Il ritorno del Bigio al suo posto viene sistematicamente impedito da una minoranza rumorosa e settaria che lo considera nient’altro che un “simbolo fascista” da eliminare e non esita per questo a ricorrere alla minaccia di atti vandalici o ad argomenti inconsistenti e grossolani, spesso di livello spregevole come la strumentalizzazione della strage del 1974, pur di imporre la propria volontà.
Esattamente lo stesso assurdo modo di agire e pensare della minoranza di fanatici, coccolati dalle elite intellettuali e ben protetti dal conformismo culturale, che negli Stati Uniti ha dichiarato guerra ai monumenti degli eroi confederati sulla base della grottesca equazione sudisti=schiavisti=razzisti che semplifica e banalizza una vicenda storica in realtà molto più complessa ed articolata nella quale il problema dell’abolizione schiavitù ebbe un ruolo molto meno determinante di quanto si voglia far credere.
Se i Confederati erano tutti biechi razzisti e gli Unionisti tutti angeli liberatori degli oppressi, bisognerebbe spiegare perché dalla vittoria del Nord abolizionista uscì una nazione segregazionista per legge, la cui Corte Suprema nel 1896 sancì definitivamente, con la sentenza Plessy vs Ferguson, la legittimità della segregazione razziale favorendo l’emanazione di leggi (le cosiddette Jim Crow laws) e prassi che l’avevano estesa rapidamente a tutto il paese ed a tutti i settori della società.
Se lo scopo della Guerra Civile era l’abolizione della schiavitù è ben strano che 100 anni dopo il proclama di Lincoln il reverendo Martin Luther King jr sia stato costretto guidare i discendenti degli schiavi liberati in una lotta durissima per ottenere sacrosanti diritti civili mai riconosciuti prima da una società fortemente razzista.
Oltretutto l’esercito unionista cha al Sud liberava formalmente gli schiavi neri è lo stesso che all’Ovest sterminava i nativi americani per fare spazio alla colonizzazione dei pionieri bianchi.
Questioni che, ovviamente, non turbano il fanatismo politicamente corretto dei nuovi iconoclasti, che come un flagello senza controllo imperversano su e giù per gli USA.
A Charlottesville, North Carolina, un militante suprematista bianco ha ucciso con la sua auto un’attivista del fronte opposto che manifestava per la rimozione della statua di Robert E. Lee, comandante in capo dell’Esercito Confederato, una delle figure più rispettate, per la sua correttezza e lealtà nella conduzione della guerra, della storia militare americana.
Lee definito dalla stampa nostrana, come sempre superficiale e approssimativa, “generale schiavista” in realtà non aveva mai posseduto schiavi e, addirittura, alla fine del 1864 aveva promosso e ottenuto (ma oramai troppo tardi) la graduale e totale emancipazione degli schiavi attraverso il loro impiego “senza indugio” nel suo esercito.
Dopo la resa di Appomatox aveva congedato i suoi soldati con queste celebri parole: “Dopo quattro anni di duro servizio segnato da insuperati coraggio e fermezza, l’Armata della Virginia del Nord è costretta a cedere davanti a forze e risorse immensamente superiori. Porterete con voi la soddisfazione che deriva dal sapere di aver compiuto fedelmente il vostro dovere. Prego sinceramente che Dio Misericordioso estenda su tutti voi la sua benedizione e la sua protezione” che avevano contribuito a renderlo il simbolo riconosciuto ed ammirato di una lotta sfortunata ma cavalleresca contro il quale ora si accaniscono branchi di esaltati e politici succubi della situazione, preoccupati solo di evitare fastidi.
“Mi sono preoccupata della sicurezza delle persone. Ora è fatta” ha detto, ad esempio, Catherine Pugh sindaco democratico di Baltimora per motivare la rimozione, avvenuta di notte e in tutta fretta, della statua del Generale Lee tirata giù con una gru dal piedistallo dal quale per oltre 130 anni aveva scrutato indisturbata il centro della città.
A Baltimora hanno fatto la stessa fine il monumento dedicato alle donne confederate, la statua del generale Stonewall Jackson, un altro mito dell’esercito confederato, e quella del giudice Robert Taney, primo presidente cattolico della Corte Suprema, che nel 1857 aveva emesso una famosa sentenza contraria all’abolizione della schiavitù negli stati del Sud.
Un esempio, quello di Baltimora, subito imitato da altre città grandi e piccole, visto che nei luoghi pubblici degli Stati Uniti ci sono almeno 1503 simboli (di cui 8 addirittura al Congresso) degli Stati Confederati.
A Gainesville, Florida, è stato così rimosso l’”Old Joe”, il monumento ai caduti confederati, che si trovava nel centro della città dal 1904.
William Bell, invece, sindaco di Birmingham in Alabama, già teatro nel 1963 di una delle più famose proteste di Martin Luther King, visto che la legge locale gli vieta di buttare giù le statue storiche, ha pensato bene di nascondere i monumenti confederati avvolgendoli nella plastica nera.
Jim Gray, sindaco di Lexington, nel Kentucky, ha annunciato che farà di tutto per rimuovere le due statue, una delle quali dell’onnipresente generale Lee, presenti nella sua città.
Lo stesso faranno, a quanto pare, in Virginia a Richmond ed in Texas a Houston e a Dallas, dove intanto è stato necessario proteggere con un robusto cordone di sicurezza della Polizia il Cimitero della Guerra Civile, cioè il sacrario dei caduti locali della Confederazione, assalito da un centinaio di militanti “antirazzisti” decisi a prendersela anche con lapidi e monumenti funebri.
(Evidentemente tutto il mondo – incivile – è paese: guai ai vinti, che da Milano a Dallas non possono riposare in pace nemmeno al cimitero).
Una escalation incontrollata che incoraggia ogni genere di esaltati, da quelli che a Durham, in South Carolina, si sono fatti “giustizia” da sé abbattendo il monumento ai combattenti confederati e facendosi fotografare mentre sputavano sulla statua oramai distrutta, sbeffeggiandola e prendendola a calci (un atto spesso invocato da certi antifascisti bresciani per il Bigio), a quelli di fede opposta che a Washington hanno imbrattato con la vernice il Lincoln Memorial.
Un delirio contagioso del quale non si vede la fine: di questo passo sarà inevitabile prendersela con i padri della patria George Washington e Thomas Jefferson, entrambi ricchi possidenti terrieri e proprietari di schiavi.
Nella sua tenuta di Mount Vernon in Virginia Washington ne possedeva 316 ai quali si aggiungevano i 153 di proprietà della moglie, oltre ad altri 40 che aveva affittato. Nessuno di questi fu mai liberato durante la sua vita.
Jefferson, che aveva inserito di suo pugno nella Dichiarazione d’indipendenza del 1776 la famosa frase “tutti gli uomini sono stati creati uguali”, possedeva più di 200 schiavi che si rifiutò di liberare persino per testamento nel quale dispose, invece, la loro vendita in pagamento di varie pendenze. Nel 1814 aveva respinto sdegnosamente la richiesta di John Quincy Adams di esprimere pubblico sostegno alla causa antischiavista.
Nel mirino della cagnara iconoclasta è finito anche Cristoforo Colombo, considerato pure lui simbolo di odio e di divisione razziale.
A Baltimora la statua del navigatore, eretta nel 1792, è stata presa a martellate. A Detroit il monumento del 1910 è stato avvolto in un drappo nero, a Houston la statua donata dalla comunità italoamericana per i 500 anni della scoperta delle Americhe è stata imbrattata di vernice rossa.
Anche la più celebre delle statue americane di Colombo, quella di Columbus Circle a New York City, donata alla città dagli italo-americani nel 1892, è ora in pericolo: il suo destino è nelle mani di una apposita commissione istituita dal sindaco ultra liberal italoamericano (ironia della sorte) Bill de Blasio su richiesta della presidentessa del consiglio comunale, Melissa Mark-Viverito, una specie di Boldrini locale secondo la quale “a Portorico, da dove vengo, si sta discutendo del fatto che non dovrebbero esistere monumenti a Cristoforo Colombo, considerando cosa significa per la popolazione nativa l’oppressione e tutto quello che ha portato con sé.”
Per gli stessi motivi il CUP, un partitino di estrema sinistra spagnolo, vorrebbe abbattere la statua di Colombo a Barcellona e rimpiazzarla con un’opera celebrativa della resistenza indigena.
Il fanatismo di questi talebani colpisce alla cieca tutto e tutti: Gandhi, la cui statua è stata rimossa da un campus universitario in Ghana dove è considerato un razzista per avere definito, molto prima di diventare il Mahatma, gli indiani “infinitamente superiori ai neri africani”; l’ammiraglio Horatio Nelson che secondo alcuni dovrebbe essere sloggiato dalla celeberrima colonna di Trafalgar Square in quanto sostenitore della tratta degli schiavi e del colonialismo imperiale; il capitano James Cook, considerato da alcuni fanatici che ne hanno rovinato la statua non lo scopritore dell’Australia ma il suo invasore; Cecil Rhodes, figura chiave del colonialismo inglese ed in quanto tale sfrattato brutalmente dall’Università di Oxford che però da più di un secolo beneficia in esclusiva delle generose borse di studio della “Rhodes Scholarship”, erede della immensa fortuna di Rhodes, istituita per finanziare gli studi dei giovani meritevoli di tutti i paesi del Commonwealth.
E naturalmente il turpe gerarca fascista Italo Balbo, nel 1932 celebrato come un eroe dagli Americani, con in testa il presidente F.D. Roosevelt, per la straordinaria Crociera Aerea del Decennale e ricordato a Chicago, meta della trasvolata, con un monumento ed una strada che, dopo essere sopravvissuti anche alla dichiarazione di guerra, ora sono a rischio: di abbattimento il monumento (una colonna romana donata dal Duce), di ridenominazione a favore di Ida B. Wells, protagonista delle lotte per l’emancipazione, la Italo Balbo Avenue.
Questa infezione delle menti, che sta trasportando nella realtà le distopie di George Orwell (“l’ignoranza è forza” – 1984) e Aldous Huxley (“La storia è tutta una sciocchezza” – Il Mondo Nuovo) è causata da un unico virus: l’ignoranza e la negazione della storia.
Da Brescia a Charlottesville, da Baltimora e New York a Londra e Oxford è questa la causa dei grotteschi avvenimenti ai quali stiamo assistendo.
La pretesa di volere negare, ignorare, modificare, emendare la storia scaraventando i fatti in un folle frullatore politicamente corretto che li tritura e impasta decontestualizzandoli, semplificandoli, banalizzandoli, manipolandoli, trasformandoli per poi restituirceli sotto forma di uno stucchevole intruglio nel quale gli anni “già fatti cadaueri” anziché essere richiamati in vita, passati in rassegna e schierati di nuovo in battaglia, come dice Alessandro Manzoni, vengono sviliti e degradati ad una banale ed elementare narrazione appiattita sul pensiero unico dominante che contrappone rozzamente pseudo buoni a presunti cattivi da cancellare dalla memoria e dalla faccia della terra senza nessun rispetto per la loro dignità nè per la realtà dei fatti.
Così esaltati fanatici diventano paladini della giustizia e atti infami come distruggere statue e profanare cimiteri azioni encomiabili che un conformismo egemone incoraggia anziché reprimere e condannare.
Come direbbe Ennio Flaiano la situazione è grave ma non seria, ma nonostante tutto qualche flebile segnale di buon senso si può ancora trovare: a Pointe-des-Cascades, una cittadina del Quebec a circa 50 miglia da Montreal, il sindaco Gilles Santerre ha ordinato alla Polizia di impedire ad un certo Corey Fleischer, fondatore di un gruppo chiamato Erasing Hate (cancellare l’odio) di cancellare con la vernice le svastiche naziste che decorano una grande ancora, appartenente ad una nave tedesca affondata durante la guerra, che da 25 anni si trova nel parco della città.
Il sindaco Santerre ha deciso di lasciare intatte le svastiche e di tacitare le accuse di apologia del nazismo subito piovutegli addosso con una targa che spiegherà ufficialmente che l’ancora è un residuato bellico posto a ricordo di un avvenimento storico e non un’esibizione apologetica di simboli nazisti.
Evidentemente ai moderni iconoclasti bisogna spiegare che l’acqua è bagnata.