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Home Penna Pellicola Palco

La collera delle legioni, “I Centurioni” di Jean Laterguy

di Marco Valle
6 Giugno 2013
in Penna Pellicola Palco
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La collera delle legioni, “I Centurioni” di Jean Laterguy
       

Sguardi profondi, visi abbronzati, corpi atletici avvolti in mimetiche “leopardo”. Marciavano “in quadrato fermissimo” e portavano sul capo uno strano berretto a “coda di rondine”; sul petto medaglie — tante medaglie — e il brevetto. La loro bandiera era un gagliardetto nero con inciso un motto: “Io oso”. Erano i “paràs” d’Indocina e Algeria, l’élite delle forze armate transalpine. I “giovani lupi”. Erano belli e crudeli.

Charles De Gaulle lì definì «il più bel esercito che la Francia abbia avuto dai tempi di Napoleone». Era il 1957. Quattro anni più tardi — bruciate le illusioni, consumato ogni tradimento e tutti gli inganni — quegli splendidi guerrieri diventarono scomodi e il cinico condottiero della “France libre” non ebbe pietà. A Strasburgo, il 23 novembre 1961, dinnanzi a 80 generali e 2000 ufficiali, De Gaulle dichiarò con voce stentorea “una volta che lo Stato e la Nazione hanno scelto il dovere dei militari è tracciato. All’infuori di questo solco, non vi sono, non possono esservi, se non soldati perduti”. Poche, definitive parole per condannare senza appello un’esperienza incredibile e tragica: la ventura dei “centurioni”.

Cos’era successo? Negli anni Cinquanta una tempesta terribile, un corto circuito micidiale aveva spezzato l’unità e l’anima delle forze armate francesi. La guerra d’Algeria, un conflitto duro, spietato e dalle molte implicazioni, aveva trasformato le migliori unità in un esercito politico. Alle parole d’ordine del Fronte di Liberazione Nazionale — l’indipendenza — i parà avevano risposto con la bandiera dell’assimilazione e dell’integrazione degli islamici in una rinnovata comunità imperiale, agli slogan filomarxisti i giovani ufficiali opposero tesi e progetti “eretici”: una nuova Algeria in una nuova Francia. Era una guerra rivoluzionaria che i “lupi” avevano appreso e metabolizzato — sulla loro pelle piagata e ferita — nel disastro d’Indocina ma che Parigi non poteva capire e accettare. Nel 1957, per gli uomini in mimetica De Gaulle — il ribelle del 1940, l’uomo dell’Action Française e della Resistenza nazionale e anticomunista, l’emblema della lotta contro politici corrotti e affaristi vili, il bastione morale dell’impero — divenne l’unico referente politico possibile. Una scelta obbligata e un’illusione. Nel maggio del 1958 le baionette dei “lupi” riportarono il generale al potere ma “il grande Charles” non voleva saperne di avventure coloniali, di costosi “fardelli dell’uomo bianco”, d’integrazione franco-musulmana e, tantomeno, di un’armata politicizzata e incontrollabile.

L’enigma De Gaulle

Ignorando “la collera delle legioni” il 16 settembre 1959 il generale in uno storico discorso televisivo pronunciava la fatidica parola “autodeterminazione”, il primo passo verso un’Algeria indipendente. Nulla d’improvvisato: qualche settimana prima il fido Georges Pompidou, allora direttore della banca Rothschild, aveva aperto una trattativa segreta con l’FLN, il nemico.

Nella primavera del 1961 ad Algeri, la città simbolo, i generali più decorati di Francia sfidarono Parigi pretendendo (con molte ragioni e poca lucidità) che l’Algeria restasse un dipartimento della Repubblica. La rivolta non era una minaccia vuota: a sorreggere il disperato tentativo dei golpisti vi erano — assieme ad un milione e più di europei d’Algeria, i “pied noires” e consistenti settori della maggioranza araba — i migliori reggimenti della Nazione. Reparti solidi, compatti, fieri, comandati dai reduci del maquis, dai ragazzi di de La Lattre de Tassigny, dai valorosi di Dien Bien Phu, di Suez, del Sahara.

Con abilità e cinismo, il callido inquilino dell’Eliseo riuscì a superare la devastante crisi interna e concludere in tempi rapidissimi e brutali la questione africana. I reparti ribelli vennero sciolti, i capi imprigionati e condannati mentre molti “lupi”, diventati proscritti, scelsero la clandestinità e la lotta armata sotto le insegne dell’OAS. L’ennesima battaglia disperata e inutile. Nel 1962 l’Algeria divenne indipendente e si liberò d’ogni presenza europea; in cambio Parigi si affrancò delle spese militari ma mantenne il controllo del petrolio, della base navale di Mers el Kebir e dei poligoni nucleari nel deserto. Un ottimo sporco affare, podromico al “boom” francese dei Sessanta e indispensabile per la credibilità del “terzaforzismo” gaullista.

Qualche riflessione. La sconfitta del “putsch dei generali” evitò di stretta misura alla Francia una guerra civile e/o un regime militare dai colori indefiniti e confusi. Difficile immaginare cosa potesse diventare l’Esagono nelle mani dei “soldati perduti”. Ai capi della guerra rivoluzionaria, irruenti capitani e ruvidi colonelli, che chiedevano l’integrazione e l’assimilazione — il “piano Soustelle” che prevedeva un’Algeria franco-musulmana autonoma ma integrata sotto il controllo dell’esercito — della maggioranza islamica, De Gaulle rispose «noi siamo un popolo europeo di razza bianca, di cultura greca e latina e di religione cristiana. Cercate di mescolare l’olio e l’aceto. Agitate la bottiglia. I due elementi non si mescolano. Gli arabi sono arabi, i francesi sono francesi. Voi credete che il nostro popolo possa assorbire 10 milioni di musulmani che domani saranno 20 e poi 40?». Un interrogativo a cui i “lupi” non trovarono risposte valide.

Per di più gli ammutinati d’Algeri scontarono la mancanza di leader credibili per una sfida di portata storica: intrecciare il superamento del colonialismo con un processo di rinnovamento nazionale, costruire un modello di Stato nuovo e un progetto geopolitico trans continentale. Impossibile. Non a caso il generale Massu, il “papà” dei paràs, ammise la sua inadeguatezza di fronte al fondatore della V Repubblica: «io non possiedo la sua cultura, il suo senso politico, la sua necessaria durezza. Non è sufficiente prendere il potere, bisogna essere in grado di esercitarlo».

Gli interrogativi sono ancora aperti. Troppi i misteri che tutt’oggi circondando la guerra d’Algeria — le fratture nell’esercito, le ambiguità di De Gaulle, le interferenze straniere (anche italiane, vedi l’interessante “l’Italia e la guerra d’Algeria” di Bruna Bagnato, Rubbettino, 2012 e le inquietanti pagine algerine di Mario Pirani, l’uomo di Mattei in nord Africa, nella sua bella autobiografia “Poteva andare peggio”, Mondadori) —, per sperare in una lettura chiara, limpida degli eventi. Come confermano l’aspro dibattito francese sulla guerra d’oltremare e il recente quanto travagliato viaggio di Hollande in Algeria, il processo di decolonizzazione francese rimane ancora una pagina aperta e dolorosa. Per i vinti e i vincitori. Per i colonialisti e gli antichi ribelli. Per i padroni di ieri e i soci di oggi.

Il romanzo dei soldati perduti

Chiuso il capitolo coloniale, la Francia gaullista cercò di rimuovere ogni ricordo della lacerante esperienza. L’Armèe, dopo una severa epurazione, si adeguò (malvolentieri) al nuovo corso e ridivenne “la grande muta” della scena politica nazionale. Fece sentire la sua voce solo nell’infuocato maggio 1968 quando Massu pretese da uno smarrito De Gaulle, in cambio dell’appoggio delle sue divisioni al traballante regime, l’amnistia per gli autori del putsch fallito.

A ricordare però l’anabasi dei paracadutisti fu, con un libro formidabile intitolato significativamente “Les Centurions”, Jean Laterguy, giornalista di razza che aveva seguito e condiviso le gesta dei giovani ufficiali. Il romanzo — ormai un classico della letteratura di guerra — ebbe un successo straordinario: mezzo milione di copie in Francia e innumerevoli traduzioni in tutto il mondo. Ma non solo. Come ricordava lo scorso febbraio Stefano Montefiori sul Corriere, “Les Centurions” è ancor oggi considerato dagli ufficiali statunitensi un vero e proprio manuale per le guerre “asimmetriche” al punto che il generale David Petraeus, poco prima d’incorrere nelle sue disavventure sentimentali, ne ha patrocinato una nuova edizione inglese.

In Italia il libro venne editato da Garzanti con un titolo volutamente cretino — “Né onore, né gloria” — ma divenne, assieme al suo seguito — “Les Pretoriens”, ovviamente modificato in un insulso “Morte senza paga” —, uno dei libri più amati dalla destra giovanile. Nelle pagine di Laterguy migliaia di ragazzi (compreso chi scrive) trovarono suggestioni, spunti, miti per superare il nostalgismo neofascista e incalzare i fans del Che e dei vietcong. In tanti scoprimmo un’ipotesi di “grande politica” e una visione differente e entusiasmante del mondo militare. Da qui il bisogno di leggere, di capire e, per i più determinati, l’arruolamento volontario nella Folgore. Nei mitici paracadutisti. Una volta in Brigata le delusioni non mancarono, non incontrammo i capi che attendavamo, ma per tutti noi fu una bella esperienza di vita.

Laterguy influenzò anche i meno giovani e menti più inquiete. Il Centro Studi Ordine Nuovo lesse nell’esperienza della guerra rivoluzionaria francese un’ipotesi politica percorribile e la possibilità di forgiare, in un improbabile incontro tra la società militare e il movimento nazional-rivoluzionario, una nuova, ambiziosa sintesi. Da qui una serie di tragici equivoci — i generali italiani erano ben altra cosa dei “lupi” d’Indocina e persino dagli imbarazzanti colonelli d’Atene — e d’incredibili fesserie. Molti anni dopo, Pino Rauti con onestà ammise «a suggestionarci in realtà non fu la Grecia ma l’Algeria. Eravamo affascinati da quel mondo descritto ne “I Centurioni” di Jean Lartèguy, quegli ufficiali francesi che dopo la sconfitta in Indocina si riorganizzarono ad Algeri dove nell’aprile del ’61 ordirono un putsch. In Italia però non ci imbattemmo in nessun Salan. Riuscimmo a scovare solo degli analfabeti, dei mediocri, gente che non era capace di giocare nessun ruolo politico. Diciamo la verità: ci illudevamo di incontrare dei cercatori del Graal e trovammo invece solo dei noiosissimi massoni».

Ma torniamo ad oggi. Mursia ha pubblicato, in versione integrale rispetto a quella garzantiana di oramai mezzo secolo fa, e ripristinando il titolo originale, “I Centurioni”, l’opera di Laterguy. Un’iniziativa lodevole purtroppo penalizzata da una copertina orribile, da troppi refusi e — soprattutto — dall’assenza di una qualsiasi introduzione.  Peccato.

La traduzione è di Gianfranco Peroncini, autore per la stessa casa editrice de “Il sillogismo imperfetto, La guerra d’Algeria e il Piano Pouget”, un’analisi documentata e obiettiva — al netto degli evidenti richiami tardo rautiani — del conflitto e dei suoi fattori socio politici. In ogni caso, è un lavoro da leggere assieme alla fondamentale “Storia della guerra d’Algeria” di Alaistair Horne, allo sconvolgente “La battaglia d’Algeri dei servizi speciali francesi” di Paul Aussaresses e a “Democrazia e il pensiero militare” di Giorgio Galli (con un po’ di fortuna si possono ritrovare anche “Soldati Perduti” di George Kelly e “Le Armi e il potere” di Paul Marie de La Gorge).

In conclusione siamo certi — nonostante le mancanze dell’editore —  che il lettore rimarrà affascinato dalle vicende dei “giovani lupi” e li seguirà dalle trincee dell’Indocina ai campi di prigionia comunisti sino al loro triste rientro in una Patria indifferente e ostile. E poi, pagina dopo pagina, accompagnerà i suoi eroi in Algeria e comprenderà i motivi profondi che trasformarono un vecchio esercito tradizionale in un’armata giovane e rivoluzionaria. Sconfitta ma vittoriosa. Per sempre.

Jean Laterguy

 

“I CENTURIONI”

 

Mursia, 2012

 

ppgg. 520 – euro 19,00

 

Tags: AlgeriaCharles De GaullecolonialismoFranciaGeorges PompidouJean LaterguyMario PiraniMursiaOrdine NuovoParacadutistiPaul AussaressesPino Rauti
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