Se il tragicomico stato di eccezione versione Totò & Peppino in cui ci troviamo ce lo permetterà tra meno di un mese andremo tutti a votare per il referendum confermativo della legge costituzionale che, approvata praticamente all’unanimità, ha ridotto il numero dei parlamentari cancellando complessivamente 345 seggi, 230 alla Camera e 115 al Senato.
Se questo taglio sarà confermato diventerà realtà uno degli storici cavalli di battaglia del M5S, il simbolo per antonomasia della lotta alla “casta”, partorito da ignoranza e superficialità per essere dato in pasto alle masse come rimedio miracoloso di tutti i mali della Repubblica.
Un po’ come quegli intrugli pseudo miracolosi venduti dai ciarlatani che giravano il Far West che spesso e volentieri finivano coperti di pece e piume dopo essere stati smascherati.
Un messaggio tanto banale ed elementare quanto efficace, tanto che tutti i partiti senza distinzione di schieramento, ideologia o posizione politica, terrorizzati dal pericolo di passare per difensori delle poltrone e del palazzo, si sono docilmente accodati alla bambinesca demagogia grillina come i topi di Hamelin.
In realtà la questione posta nei termini in cui è stata posta non ha nessun senso né logico, né giuridico, né pratico.
Come è noto gli argomenti a sostegno del taglio sono essenzialmente due: la riduzione dei costi di funzionamento del parlamento e la sua maggiore efficienza.
Nessuno dei due, però, ha un minimo di fondamento.
Il risparmio effettivo per i conti pubblici sarebbe più o meno di un’ottantina di milioni all’anno, una cifra assolutamente insignificante di fronte ai circa 850 miliardi della spesa pubblica annuale di cui rappresenterebbero un misero 0,007%.
Un prezzo più che stracciato per una consistente riduzione della sovranità e della rappresentanza popolare: rapportando il numero di rappresentanti al totale degli abitanti l’Italia si trova oggi al 24° posto in Europa per la Camera, con 1 deputato ogni 100.000 abitanti, e al 9° posto per il Senato tra i 14 Stati che hanno una camera alta.
Se confermato, il taglio escogitato dai grillini ci farebbe scivolare in ultima posizione per rappresentanza alla Camera, con 0,7 deputati ogni 100.000 abitanti, e alla penultima per il senato con 0,3 senatori ogni 100 000 abitanti.
Quanto alla presunta maggior efficienza è sin troppo facile obiettare che non esiste nessuna seria correlazione tra efficienza e numero dei parlamentari, come sa bene chiunque abbia una minima conoscenza del funzionamento delle Camere.
La farraginosità dei processi di formazione delle leggi dipende soprattutto dalle norme costituzionali, oramai obsolete ed inadeguate, che li regolano (art. 70 e seguenti della Costituzione) e, soprattutto, dai bizantinismi dei regolamenti parlamentari ancora pesantemente intrisi dell’assemblearismo consociativo della prima repubblica.
Un ginepraio nel quale nessuno di quelli che si sono succeduti al potere degli ultimi 25 anni ha mai voluto mettere seriamente le mani, una materia oscura e complessa difficilmente comprensibile e ancor più difficilmente spendibile elettoralmente, a differenza delle banali semplificazioni grilline.
Oltre al fatto, ovviamente, che esiste un problema qualitativo, la selezione del ceto politico, ben più rilevante di quello quantitativo: che senso ha ridurre il numero dei parlamentari se poi quelli che rimangono sono dei Toninelli, delle Azzolina o dei Di Stefano?
C’è poi un rilevante problema di metodo: la pandemia ha reso clamorosamente evidente l’obsolescenza della cosiddetta “Costituzione più bella del mondo”, le cui norme di funzionamento si sono rivelate del tutto inadeguate di fronte ai problemi da affrontare, come dimostra il fatto che un tizio capitato per caso a Palazzo Chigi abbia potuto esercitare (male) un potere quasi assoluto ed incontrollato, limitando gravemente l’esercizio di diritti fondamentali per mezzo di semplici atti amministrativi privi di qualsiasi controllo nel silenzio tombale, se non con l’acquiescenza, degli organi costituzionali di garanzia.
O come dimostrano anche il caos nella suddivisione delle competenze tra Stato e Regioni; le continue ingerenze di una magistratura politicizzata nelle decisioni politiche; il malfunzionamento del CSM ridotto ad un Suk maleodorante di traffici, malcostume e interessi inconfessabili; il governo improvvisato, legale ma non legittimo, tenuto in piedi da una maggioranza parlamentare artificiale, nata dal trasformismo e tenuta a galla con argomentazioni puramente formalistiche, del tutto scollato dalla maggioranza del paese reale privato della possibilità di esprimersi.
Servirebbe quindi un serio e sistematico processo di revisione della parte seconda della Costituzione, quella che definisce l’ordinamento dello Stato, per adeguarla alle esigenze di una società moderna dotando il paese di istituzioni evolute ed efficienti, posto che molti dei presupposti dai quali era nato il testo in vigore dal 1948 risultano arretrati e superati da decenni.
Invece i grillini, per superficialità ed ignoranza, e tutti gli altri, per paura ed interesse contingente, hanno imposto una inutile mossa ad effetto, figlia di una ridicola propaganda più che di una seria cultura politica, che non risolverà nessun problema ma, anzi, ne creerà molti altri, a cominciare da quelli legati alla legge elettorale.
Stupisce in questo quadro la posizione della destra o, per meglio dire, di quello che chiamiamo oggi destra, passivamente accodatasi al grottesco carrozzone grillino.
Pazienza per Matteo Salvini, come sempre prigioniero della sua improvvisazione e dei suoi limiti, che su questo tema si era aggregato al M5S col bizzarro “contratto di governo” per poi annaspare dopo la cantonata dell’uscita dal governo cercando di farne materia di scambio per restare a galla e finendo col sostenere anche dopo il taglio dei parlamentari più che altro per inerzia e propaganda.
Molto più sorprendente è la scelta di Giorgia Meloni, che ha fatto della questione un punto qualificante della sua posizione politica tanto da essere stata l’unica ad opporsi apertamente al referendum confermativo.
Si tratta, come è evidente, di una scelta dettata dal solito tatticismo, da un calcolo utilitaristico di breve termine, ovvero cercare di mettere il cappello su una scelta (sbagliata) che la propaganda grillina ha reso popolare per non lasciare al M5S il monopolio del presunto successo e non passare per quelli che difendono la casta e le poltrone.
Una posizione sostanzialmente subalterna e passiva finalizzata alla raccolta del consenso spicciolo ma lontana da una consistente strategia politica e della quale forse non sono state ben valutate le conseguenze.
La vittoria del NO al referendum confermativo sarebbe una sconfitta cocente per il M5S che avrebbe verosimilmente ripercussioni serie sul governo.
La conferma del taglio dei parlamentari, viceversa, sarebbe una salutare boccata di ossigeno sia per i grillini, che si intesterebbero (giustamente) un rilevante successo politico, che per Giuseppi.
In pratica, come si suol dire, la cosiddetta destra avrebbe lavorato per il Re di Prussia.
La Meloni, però, tira diritto: “Non mi sfugge che un eventuale successo del No potrebbe mettere in difficoltà la maggioranza, ma non baratto una cosa in cui credo con l’utilità di un momento”.
Viene da chiedersi da cosa derivi questa granitica credenza (non risultano analisi specifiche nel merito), posto che i termini del problema sono quelli sopra esposti e che in teoria (molto in teoria) da chi si dichiara erede e continuatore della tradizione della destra politica italiana, che in materia di ordinamento dello stato ha sempre avuto le idee chiare ed una ricchissima produzione culturale, sarebbe lecito aspettarsi meno propaganda ed analisi più profonde ed articolate.
Sul tema, in fondo, chi sta a destra qualche libro in più di Salvini o Di Maio dovrebbe averlo letto, magari cominciando da Carl Schmitt, l’autore ideale per comprendere quello che sta succedendo.
Nonostante qualche malumore della base, la linea resta inchiodata senza spazio per opinioni diverse, come inevitabile in un partito dove non esiste il confronto e non c’è dialettica interna.
Persino in Forza Italia un gruppo abbastanza significativo di parlamentari ha deciso di dissociarsi dalla linea del partito e di sostenere apertamente il NO.
Tra i fratellini della Meloni, invece, solo Guido Crosetto, forse perché oramai immune da certe dinamiche di partito, ha avuto il coraggio di dire apertamente quello che molti pensano e mugugnano solo in privato: “Il parlamento è la vera garanzia di libertà di un popolo anche contro i poteri forti. Risparmio? La perdita di una qualsiasi ASL in un anno”.