Mario Landolfi è uno dei pochi che – a destra – ha sempre privilegiato il pensiero allo slogan; oggi è il primo ad alimentare apertis verbis, con un gustoso esercizio della sua pregevole penna, il tema della possibile “riabilitazione” di Gianfranco Fini sotto questa metà del cielo: e lo fa – da par suo – proponendo una lettura del suo percorso politico, scevro dalle rancorose pulsioni del tifoso partigiano.
Chi scrive, il 13 dicembre 2010 (ovvero nel dibattito parlamentare sul voto di fiducia al governo Berlusconi che vide FLI esprimersi a favore della caduta dell’esecutivo) si occupò di sancire in Aula – a nome di tanti colleghi di AN portati proprio da Fini nel PDL – la definitiva rottura tra il nostro mondo e quello che nell’ultimo ventennio ne era stato l’unico, incontrastato e spesso fantozzianamente idolatrato leader. Toccò a me, e non fu emotivamente facile, perché proprio io fui tra i primi a contestare la guida di Gianfranco quand’era saldamente in sella al nostro partito.
Da allora, come tanti (direi tutti) non dissi più nulla sul tema; per questo oggi, vergine di servo encomio e di codardo oltraggio, mi sento di raccogliere la provocazione di Mario ed esprimere qualche personale convincimento.
Per seguire il filo logico di Landolfi bisogna partire da Fiuggi, ovvero la prima occasione in cui al nome di Fini alcuni associarono l’aggettivo “traditore”; termine da sempre abusato nella dialettica della destra nostrana, troppo spesso più adusa alle scorciatoie verbali che allo sforzo del pensiero. Ricordo ancora l’emotività che permeava quei giorni; io, che non riuscii a versare lacrima neppure in morte di mio padre, piansi come un bimbo la sera in cui spegnemmo definitivamente il simbolo del MSI per dar vita ad Alleanza Nazionale. Ma di quella trasformazione morfologica fui convinto sostenitore; chiudevamo una stagione non per fallimento ma per il raggiunto conseguimento degli scopi sociali, come si dice in diritto commerciale, avendo assicurato alla narrazione della storia patria una continuità a lungo negata.
Ed aprivamo la strada, forse per la prima volta dai tempi di Cavour, ad una destra plurale ed europea, disponibile al confronto. Capace di includere e rappresentare – per contenuti e protagonisti – una credibile opzione di governo agli elettori finalmente liberi dal ricatto del voto democristiano come unico baluardo al pericolo rosso.
Negare il senso autenticamente politico di quella scelta (che la si sia condivisa o avversata) è solo indice di malafede. E Fini, certamente illuminato dall’intelligenza e dal senso tattico di Pinuccio Tatarella, ne fu l’indiscusso attore protagonista.
A questo punto Landolfi, per spiegare il “fattore F” come lo chiama nel suo scritto, introduce il fattore “B”, ovvero l’immanente presenza nel nostro stesso bacino potenziale di Berlusconi (non parlo di Forza Italia, che non fu mai altro se non il logo personale con cui il Cavaliere raccoglieva milioni di consensi sulla sua persona).
Se non vi è dubbio che il tentativo di non venire fagocitato da un competitor dall’impareggiabile potenza mediatica e finanziaria fu sempre un cruccio che accompagnava Fini dall’alba al tramonto, neanche in questo caso ravviso – nelle scelte che si sono conseguite negli anni e che pure in alcuni casi ho fortemente avversato – i crismi del tradimento.
Se un filo conduttore può essere individuato, dalla Conferenza Programmatica di Verona al Congresso di Bologna, dalle scelte istituzionali a quelle economiche e sociali, lo si trova a mio avviso nel tentativo continuo di “secolarizzare” la destra. Di inserirla stabilmente nell’ambito delle realtà votate a scegliere, decidere e guidare, sfrondandone gli aspetti così tanto irrazionalmente passionali da legittimarne una rappresentazione macchiettistica che inficia la credibilità di cui deve godere una forza di governo anche quando è temporaneamente costretta all’opposizione. E’ vero, come dice Mario, che subimmo il “coup de theatre” di Berlusconi, il quale irruppe a Verona regalando a tutti il “Libro nero del comunismo”; ma continuo a pensare che gli atti di quella conferenza rappresentino uno dei momenti più alti nella capacità di elaborazione politica del centrodestra della seconda repubblica, così altrimenti impermeabile al pensiero da affondare miseramente in pecorecce storie di mutande e festicciole.
Ancora, le successive scelte controverse, come l’Elefantino, il referendum sulla procreazione assistita e tanti altri “strappi”, letti fuori dal coinvolgimento della contingenza rispondono molto probabilmente a quella logica. Ma anche qui, Fini non fu un “voltagabbana”; semplicemente sbagliò i tempi. Errore imperdonabile per un politico di razza; ma errore politico, appunto. Di cui però non lo possono certo accusare le moltitudini che vi assistettero silenti quando non complici, nel prevalente interesse di mantenere il posizionamento delle proprie terga sui vellutati scranni parlamentari.
Il nostro, ricordiamocelo, fu il mondo che bandì con ignominia i protagonisti della scissione di “Democrazia Nazionale” del 1976; la bolsa retorica interna trovò un comune cemento nell’odio verso i “traditori” (rieccoci, appunto). Quasi nessuno ebbe in seguito il coraggio di ammettere che quello fu l’identico passaggio compiuto a Fiuggi 20 anni dopo, quando i tempi erano maturi e le circostanze favorevoli. La tempistica, in politica, è tutto. E Fini, ormai privo del conforto di Tatarella, la sbagliò, volendo accelerare una ulteriore trasformazione che ci ponesse in grado di rappresentare una platea sempre più vasta di interlocutori.
Proprio la debolezza di seguito e consenso, conseguente a quei tentativi di bombardare anzitempo i confini entro cui ci cullavamo in certezze autoreferenziali, ha gravemente compromesso la competitività interna di AN, inducendo il suo leader ad accettare l’ingresso nel PDL per non essere fagocitati dal Cavaliere in grande spolvero, pure poche settimane dopo aver annunciato le “comiche finali” della coalizione. Ma, a dire il vero, neppure in quel caso, né sull’annunciata rottura né sulla realizzata adesione, alcuno di quanti oggi additano il presidente come unico responsabile del fallimento espresse memorabile favella.
Da lì, l’inevitabile deriva verso la rottura con Berlusconi e – conseguentemente – lo sfascio dall’interno di una coalizione che agli occhi degli elettori sembrava in quel momento imbattibile. Grave, gravissimo errore politico, alimentato dalla sensazione di impotenza e dall’oggettiva minorità attrattiva nel confronto tra l’algida figura del nostro e la studiata affabilità del premier; ed anche favorito, perché non dirlo, dalla malevola intercessione di figure ed interessi esterni che, colta la posizione di debolezza di Fini, ne hanno strumentalizzato il ruolo al solo fine di velocizzare la detronizzazione del tycoon di Arcore.
Fini, quindi, è certamente colpevole, ma non fu “traditore”. E fu indubitabilmente il più importante protagonista ed artefice di una stagione di espansione della destra in Italia, sdoganata da nessuno se non dalla propria capacità di finalmente attrarre l’attenzione di tanti cui era stato precedentemente insegnato a demonizzarci. E la triste esperienza dei tempi successivi alla sua uscita di scena conferma che nessuno di quanti non esitarono a dipingerlo come unico assassino della destra, per evitare nella fretta del processo di essere accusati di correità o di omissione, sia mai più riuscito a rendere credibile una proposta di destra concreta, organica e strutturata. Qualcosa di assai lontano dalla pesca delle occasioni mediatiche e dalla collezione di slogan tanto vacui quanto irrealizzabili cui ci ha abituato l’odierna tenzone politica. Ma questa è un’altra storia di cui, spero, ci occuperemo presto insieme.
Su Fini, quindi, va cancellata la damnatio memoriae, e gli va assegnato l’innegabile ruolo nel Pantheon della destra italiana; conservando il giusto diritto di critica ma delegittimando ogni pulsione ingiuriosa, di cui pochi o nessuno avrebbero onestamente il diritto di fregiarsi.
Ancor più oggi, dopo che le sceneggiate di Batman e Toro Seduto al Campidoglio hanno dato stura ed argomenti a chi ha interesse a dipingere tutta quest’area come il ricettacolo di decerebrati facilmente fomentabili con quattro strilli in piazza.
Ragionamenti rispettabili al di là giustamente che si sia condiviso o avversato il percorso politico di Fini e A.N. ma da queste analisi appunto politiche manca un riferimento all’ingloriosa vicenda “Montecarlo” che appunto segna la differenza tra un percorso politico in buona fede o in mala fede. Nella vita come nel lavoro gli errori si scontano non vedo perché non debba valere per la politica.
Penso che l’errore sia stato di non aver mai pensato di creare una classe dirigente di valore. Abbiamo visto di che pasta erano fatti i “colonnelli”, capaci solo di piazzare amanti e familiari in stipendifici tipo Rai e banche. Lui stesso con la sua giovane compagna si preoccupò di piazzare il di lei fratello. Che resto pure nell’oblio. Non ne sentiremo la mancanza.
Lungi da me difendere in alcun modo la figura di Fini di cui non fui mai , neanche sodale correntizio sin dai tempi della sua segreteria giovanile.
Devo rilevare, però , come nel corso degli anni la sua figura sia diventata facile parafulmine, alibi non tanto nascosto e consapevole di molte pigrizie intellettuali che non aiutarono di certo la comunità ad una seria ed approfondita elaborazione culturale e quindi programmatica. Rimaneva il gap , ad oggi non colmato , tra lo sterile reducismo e la deriva “liberaldemocratica” su cui si poteva e si doveva lavorare con o senza Fini
Così, invece, si individuò il lupo cattivo ma non si aiutò Cappucetto Rosso a crescere ritrovandoci, oggi, nel bosco più fitto ( che non è quello di Junger)
“Il nostro, ricordiamocelo, fu il mondo che bandì con ignominia i protagonisti della scissione di “Democrazia Nazionale” del 1976; la bolsa retorica interna trovò un comune cemento nell’odio verso i “traditori” (rieccoci, appunto). “
Ricordiamocelo la vicenda di “democrazia nazionale” con la fuoriuscita della migliore classe dirigente della destra tacciata di tradimento fu il viatico alla carierà politica di gran parte della classe “dirigente” in primo luogo di Fini e di tutti gli altri, i cosiddetti colonnelli di cui conosciamo il triste destino Alemanno, Gasparri, Bocchino, ecc. ecc. prova della scarsezza ideologica culturale umana che non poteva che portare al fallimento la destra. Per quanto riguarda la via liberal democratica non vedo perché non appoggiare Berlusconi o il P.D.
Con tutto il rispetto dovuto all’amanuense… io credo che raccontare la parabola politica di Gianfry omettendo perfino di citare l’affaire Montecarlo equivale a copiare lo struzzo che mette la testa sotto la sabbia… è proprio quell’episodio, infatti, che ci da la precisa misura (politica, s’intende) dell’uomo che “uccise” la destra politica in Italia!
Cumpari…”gianfry,l’uomo che uccise la dx politica in Italia”?Vorresti dire che Gianfranco era il ‘principio e la fine’ di tutto ciò che gravitava prima dentro il MSI e poi dentro AN?Tu non hai mai sentito di quel proverbio che recitava e reciterà sempre ‘morto un papa,se ne fa(può fare) un’altro’,e certamente se solo coloro demandati a ‘farlo’ non fosseroo tutti mezze s….?Quando avvenne il ‘cataclisma’,pur se dentro il pdl,la ‘comunità’ senza più ‘casa comune’,viaggiava pur sempre intorno al 15% dell’85% che andava a votare,milioni dunque.Possibile che fra quei milioni non si trovasse na ‘schiena dritta’ che ‘chiamasse da parte’ il ‘mingherlino’ e…e si comportasse come fanno gli amici verso coloro che,diciamocelo tra noi bergamottari,dai!,’scantonano’ dalla retta via?Che non aveva alcuna maggioranza se FLI è evaporata al primo colpo,o sì.Un ‘coso’ che riunisse quella comunità,che sicuramente avrebbe compreso che la non utilizzazione del logo MSI era solo ‘passeggera'(come del resto fece la Giorgia anni dopo,ma…entrò in parlamento ed ora vola),e che presto sarebbe tornato nel posto dove doveva tornare.E che ‘Montecarlo’,pagata con sconto,non f……,sia chiaro,avrebbe convinto anche i più riottosi a sostenere sta nuova formazione.E’ successo qualcosa di simile?Tutti dietro al ‘rasoterra’…ed a cena ad arcorestan,dove la ‘gentile’ Pascale,quando i ns,qualcuno dei ns,diciamo,e confermato da ‘bausciata’ berlusconiana,veniva invitato,gli si portava in tavola verdurine nel brodo riscaldato,nel mentre a Luxuria in visita a dudù,presentava pasta al tartufo:nero anche.E che almeno gli fosse mai permesso di ‘visitare’ la ‘stanza del diavolo’:solo s…. x i ns.Itaca1,Itaca2,cdx,fdi…non li ‘acchiappa nessuno ed a quel che si ‘vede’ ormai da anni,non sono neanche capaci d’acchiappare:purtroppo,certo.
Gianfranco Fini fu imposto alla guida del Fronte da Almirante: le consultazioni degli iscritti, infatti, avevano indicato Marco Tarchi. Lo stesso Almirante impose Fini alla guida del MSI, Rauti riuscì a prevalere solo per un breve periodo. Fini ha gestito il partito da padrone e ha fatto si che lo seguissero solo i servi fedeli: ricordate quando definì le “correnti” peggio delle metastasi? Si è circondato di yes man ossequiosi (lui decideva incarichi e candidature) e ha consegnato il partito nelle mani di Berlusconi salvo poi gridare al lupo, al lupo! Ha organizzato la truffa di Montecarlo non perchè è un coglione (come si definisce lui stesso) ma perchè a lui, in realtà, della Destra, dei suoi ideali, dei suoi valori e dei giovani militanti non è mai importato un cazzo!
Caro sindaco…scusa x il ‘cumpari’,mi son reso conto dopo di chi ‘potevi essere’…appena covid permetterà e potrò ‘rientrare’ per godere anch’io di un po di sole x qualche mese…passerò il ponte dell’Ammendolea e verrò a trovarti x ‘conversare’ su sta faccenda,magari bevendoci na birra insieme.
Ti aspetto con piacere!