Tra i tanti demeriti del baccano trionfalistico che accompagna il cosiddetto “Recovery Fund” e la trattativa da magliari svoltasi al Consiglio Europeo, dove l’Italia era rappresentata da dinamico duo Conte-Casalino, c’è, inaspettatamente, il merito (si fa per dire) di avere evidenziato ancora una volta i limiti e l’inconsistenza dell’opposizione di destra.
A dimostrazione del fatto che non è solo merito (o colpa) della maggioranza se il governicchio PD-M5S resta in piedi, sia pure tenuto insieme con lo sputo, ma anche demerito di un’opposizione inconsistente, divisa e sostanzialmente impotente.
Il che ci conferma che se anche la richiesta messianica di andare al voto venisse accolta, difficilmente il consorzio elettorale che ancora chiamiamo centro destra (il progetto politico è finito da anni) sarebbe in grado di produrre una politica di efficace discontinuità con quella degli ultimi 10 anni.
Mentre la congrega europeista alza al massimo il volume della propaganda descrivendo trionfalmente un mediocre, e probabilmente inutile, risultato come una grande vittoria, la destra procede in ordine sparso senza una posizione chiara ed univoca e con la solita e pericolosa propensione al tatticismo di bottega ed alla subalternità.
Pazienza per i rimasugli di Forza Italia, oramai disponibili al ruolo di stampella del governo pur di garantirsi una triste sopravvivenza, che ora chiedono anche il MES e sono in prima fila nello strombazzare la più vuota retorica europeista.
Ma anche il presunto polo “sovranista” (qualunque cosa voglia dire) sta offrendo uno spettacolo poco dignitoso. Salvini e Meloni per motivi di bottega, di tattica e di visibilità oramai si sono divisi i ruoli: uno fa il duro, l’altra la moderata che ammicca al centro e cerca di essere “ragionevole”, più per convenienza che per convinzione.Peccato che, al di là della propaganda, nessuno dei due riesca a dimostrarsi preparato e quindi credibile.
Salvini cerca di mantenere il punto opponendosi alla marea della retorica europeista, ma è ben difficile risultare affidabili sui temi macroeconomici e sui rapporti in Europa affidandosi ai tweet sui panzerotti: “Ma che ne sanno i “frugali”? Mozzarella e panzerotti pugliesi, olio buono, frutti di una terra stupenda che tutto il mondo ci invidia. Orgoglio italiano, sempre!”.
Evidentemente, per evidenti limiti di spessore politico, non riesce a capire che la sua slot machine del facile consenso si è inceppata e che se vuole aspirare seriamente ad un ruolo di leader deve studiare, non mangiare o twittare.
Giorgia Meloni, spaesata come al solito sui temi economici, se ne esce con un: “Nel complesso negoziato europeo sul #RecoveryFund abbiamo chiesto a Conte di giocare in attacco, perché senza Italia non c’è Ue. Se difenderà fino in fondo gli interessi del popolo italiano ci troverà al suo fianco: FDI antepone sempre l’interesse nazionale a quello della fazione”.
Un’insolita apertura di credito a Giuseppi, un inatteso e retorico sostegno by partisan, come se la trattativa sul Recovery Fund coincidesse con l’interesse nazionale, una dichiarazione di novella fede europeista con la quale la leader di FDI si accomoda nel confortevole ma scontato e conformista maintream eurofilo. Temendo forse, per il solito piccolo calcolo del momento, gli effetti negativi di un eventuale (in realtà impossibile) “successo” di Conte.
Posizione solo parzialmente corretta, e non più di tanto, dopo la fine della trattativa:
“Con la coscienza a posto ora, a negoziato concluso, voglio dire che Conte è uscito in piedi ma poteva e doveva andare meglio. È stato sbagliato dare per acquisiti i 500 miliardi di sussidi proposti da Merkel e Macron e poi aprire a un taglio in cambio di zero condizionalità. È tornato a casa con meno sussidi e più condizionalità. Gli riconosciamo di essersi battuto per contrastare le pretese egoistiche dei Paesi nordici ma il risultato finale purtroppo non è quello che speravamo.”
Come dire che la battaglia era giusta, mancò la fortuna non il valore…
Senza comunque lesinare ammirazione per l’accaduto: “L’EU ha dato un segnale importante, forse storico …. non si può non apprezzare l’atteggiamento di Germania e Francia: un passo politicamente gigantesco” chiosa il sempre più trasversale e sempre meno politicamente identificabile Guido Crosetto.
Alla base di queste singolari prese di posizione ci sono probabilmente le solite motivazioni: tatticismi contingenti, subalternità culturale, improvvisazione, superficiale conoscenza dei problemi e della situazioni, piccole convenienze del momento
A quanto pare non sono chiari i termini del problema: i trattati non permettono, anzi vietano espressamente (art. 123, 124 e 125 TFUE) la condivisione del debito pubblico dei singoli stati. L’unica forma ammessa di sostegno finanziario è quella che ha dato vita al MES, sottoposta a “rigorosa condizionalità” (art. 136 TFUE), non derogabile senza modificare il trattato, e alla normativa collegata (R.E. 472 e 473, ecc.) secondo la quale la condizionalità si concretizza, sostanzialmente, nel controllo delle decisioni di finanza pubblica degli stati debitori, cioè in un’ulteriore perdita di sovranità e di indipendenza, una costrizione insuperabile per chiunque si trovi a governare il paese alla faccia della democrazia elettiva, come sanno bene i Greci.
Il fatto che il nuovo strumento negoziato al Consiglio Europeo si chiami Recovery Fund non cambia la sostanza delle cose: resta un MES adattato alle circostanze nella forma e nelle dimensioni.
L’Italia riceverà, pare, una sessantina di miliardi sotto forma di sovvenzione, che pareggeranno sostanzialmente i contributi che versiamo al bilancio europeo (oggi siamo contributori netti, cioè diamo più di quanto riceviamo), e avrà prestiti a tasso variabile, al momento non definibile, per circa 120 miliardi spalmati in vari anni a partire dal 2024.
Il tutto finanziato da nuova pressione fiscale e dai conferimenti dei singoli stati, quindi anche dell’Italia (per cui sarà da valutare il beneficio netto) e sottoposto alla “rigorosa condizionalità” imposta dai trattati, che in questo caso, da quello che si legge, sarà un controllo molto rigido non solo su erogazione e impiego dei fondi, ma anche sulla capacità di restituzione degli stati debitori ai quali possono essere imposte riforme, politiche fiscali e decisioni di finanza pubblica con tanto di diritto di veto sulle erogazioni, che hanno chiamato “freno di emergenza”.
In pratica quello che Mario Monti fece a suo tempo stimolato da una letterina, col Recovery Fund sarà un obbligo contrattuale per ricevere i soldi della immaginaria “solidarietà europea” a pagamento.
Senza contare il ricatto dei cosiddetti “paesi frugali”, il cui consenso è stato lautamente retribuito con rilevanti sconti sui conferimenti al bilancio europeo (i cosiddetti rebates) e generosissime concessioni sui dazi doganali, oro colato per il porto di Rotterdam e per l’Olanda, un paradiso fiscale con il più alto indebitamento privato d’Europa che non si capisce cosa abbia di “frugale”.
Inspiegabile, quindi, scagliarsi contro il MES per poi sposare il Recovery Fund come se fossero due cose diverse, una cattiva e una buona, e adottare atteggiamenti accomodanti se non addirittura di ammirazione, vedi Crosetto, nei confronti di un meccanismo come quello sopra descritto, in realtà insufficiente, tardivo e pesantemente coercitivo.
Da chi dice di voler difendere l’interesse nazionale sarebbe lecito aspettarsi ben altro.