A qualche settimana dal voto francese che ha portato Macron all’Eliseo –e vedremo se questo enfant prodige manterrà le aspettative dei suoi laudatores o, più mestamente, ripercorrerà i passi del funereo Hollande- è possibile tentare un’analisi più ragionata sulle cause della vittoria del candidato centrista. O, se si vuole, sulla sconfitta di Marine Le Pen. Lo ha fatto nei giorni scorsi su Destra.it Marco Valle, individuando, a mio modesto giudizio, alcuni temi centrali su cui riflettere, anche e soprattutto in vista delle evoluzioni future della scena politica non solo francese, ma europea. A quella riflessione si può aggiungere qualche spunto (non sempre coincidente con l’analisi di Marco. Me ne perdonerà, spero).
Innanzi tutto una premessa terminologica: più che di partiti “sovranisti” parlerei di partiti “identitari”. Non è differenza meramente formale. Il concetto di identitario rimanda a quello di comunità, intesa non come mera aggregazione casuale di individui, bensì come collettività cementata da un comune –appunto!- vissuto storico, culturale e, perché no, mitico e, soprattutto, proiettata verso un futuro che è qualcosa di più che la somma dei destini individuali. L’idea di sovranismo, così come viene declinata dai media osservanti il politicamente corretto, rimanda piuttosto ad un’idea di nazione di stampo ottocentesco, ormai irrimediabilmente superata dal tempo. Come non concordare, dunque, con Marco Valle quando richiama la visione europea di Jean Thiriart? Pensare al ripristino sic e simpliciter dei vecchi confini tra le nazioni europee è poco più che velleitario. Il che, ovviamente, non significa rassegnarsi all’idea delle frontiere colabrodo che ha oggi un paese come l’Italia. E’ però fin troppo facile, anche dando una semplice scorsa al celebre “65 tesi sull’Europa” dello stesso Thiriart, capire che l’Europa “da Brest a Vladivostok” immaginata dal pensatore belga è qualcosa di molto diverso dall’Unione Europea. E’ un’idea molto più in sintonia con una visione “ghibellina” d’Europa, dunque federalista e rispettosa delle nazioni, che all’idea economico-burocratica incarnata da un’Unione Europea sentita lontana ed assente dai cittadini europei. E non è certo una caso se Thiriart, per restare al suo esempio, intitola il suo testo principale “L’Europa, un impero di 400 milioni di uomini”
Nel concreto: i partiti identitari non possono e non devono pensare di rispondere alla crisi europea riproponendo il modello ottocentesco dello stato nazione. Sarebbe un errore irreparabile. Occorre dunque riflettere su una riforma dell’Unione. O, forse meglio, sul suo superamento. Perché costruire un’unione politica prima che economico-finanziaria, partecipata e non tecnica, rispettosa delle nazionalità e non “sovietica”, significa di fatto edificare ex novo l’Unione Europea. E nel farlo non si può non ridiscutere l’euro. Ed in questo la mia visione è più radicale di quella di Marco Valle. La moneta unica per come è stata ideata e realizzata è stata un enorme errore e, per la sua stessa rigidità, appare davvero difficile da riformare. Del resto basta vedere quel che è accaduto in Grecia: fatte salve le colpe dei greci (tante e gravi) pensare di risolvere la crisi a colpi di austerità e con la rigidità dovuta al mantenimento della moneta unica è stata una scelta a dir poco azzardata. Con gravissime ricadute per la popolazione, prima ancora che per l’economia ellenica. Ma è stata anche l’unica scelta possibile per chi è chiamato a dover difender d’ufficio questa Europa. E se è vero che indietro non si torna, occorre immaginare soluzioni nuove, certamente meno rigide. Creare un “euro forte” ed un “euro debole”? Trasformare l’euro in valuta di conto come il suo predecessore ecu? Nel breve spazio di questo testo impossibile ragionare su quale sia la soluzione migliore. Ma di certo una vera riforma dell’Unione non può avere tabù. Euro incluso.
E qui veniamo ad uno dei punti deboli dei partiti identitari europei: una proposta economica spesso vaga, a volte poco credibile. Un ostacolo non da poco per chi punta a vincere le elezioni e non a fare testimonianza. Un limite che se spesso è fin troppo evidente sugli aspetti economici, investe non di rado anche altri punti del programma dei partiti identitari. E’ il limite che ha penalizzato Marine Le Pen (in particolare per quanto riguarda l’economia) e che, ad esempio, in Germania condiziona le sorti di Alternative für Deutschland, troppo vaga quando non affronta i temi dell’immigrazione e della sicurezza. Un programma chiaro e, soprattutto, credibile e realizzabile è il presupposto indispensabile per poter offrire all’elettorato un’alternativa alla socialdemocrazia agonizzante ed al popolarismo claudicante. Salvo voler lasciar campo libero al Macron, o al Grillo, di turno. E’ questa la vera sfida che attende il Front National, Afd, gli stessi identitari italiani, Lega e Fdi in primis.
Un programma chiaro e credibile è anche il presupposto per individuare un elettorato cui rivolgersi. E qui c’è un altro aspetto controverso: a chi si devono rivolgere i partiti identitari? Personalmente credo che oggi la contrapposizione non sia più quella novecentesca destra/sinistra, piuttosto alto/basso, globale/identitario. Questo non significa per gli identitari “ripiegare” sui vinti della globalizzazione. O richiamare alla memoria la “destra che guarda alla sinistra”. Più semplicemente si tratta di dare corpo –solido- alla proposta politica di una destra non liberista (magari neppure liberale). Di dare rappresentanza a chi desidera o immagina un diverso modello di sviluppo. A chi oppone al mondo globale di Soros una differente Weltanschauung. Nella consapevolezza che quella fascia di popolazione composta da “apolidi globalizzati”, o “cittadini del mondo” come amano definirsi, non sarà e non potrà mai essere un interlocutore. Non si tratta di riproporre lo scontro romantico tra la nazione profonda e quella delle metropoli, piuttosto di individuare anche nelle metropoli quanti sono alla ricerca di un modello altro da quello del mondo multiculturale e liberal-liberista che viene ossessivamente proposto.
Come si traduce questo sul piano più strettamente politico? Certamente non arroccandosi in posizioni di chiusura, cercando il dialogo con gli affini. Per restare al caso francese è evidente che Marine Le Pen debba tentare di sfruttare la crisi dei gollisti, dopo aver costruito un’alleanza con Dupont-Aignan al secondo turno delle presidenziali. Questo, tuttavia, non significa dover slittare verso il centro. O rinunciare ad intercettare il consenso di quelle categorie sociali deluse da una sinistra “caviale e champagne”, una sinistra ormai incapace di comprendere le esigenze di quel popolo che pur pretende di rappresentare. O diluire la propria componente “di destra” per tentare di conquistare i fantomatici “moderati”. Proprio in Italia abbiamo esperienza piena del fallimento di simili progetti: l’esperienza di Alleanza Nazionale tutto è tranne che un modello da prendere ad esempio per il futuro. Giusto per essere concreti: il bacino elettorale da conquistare per una formazione identitaria in Italia è quello del non voto, quello del Movimento 5 Stelle, quello delle fasce sociali più deboli orfane di una sinistra ormai globalizzata e delle categorie produttive, quello vario e magmatico costituito da quella rete di associazioni e movimenti (cattolici, culturali, identitari) privi di un preciso riferimento politico. Di certo l’obiettivo non possono essere gli elettori di Alfano o di Casini.
Vale in Italia quel che vale in Francia: bene fa Marine Le Pen a costruire alleanze e a tentare di sfruttare la crisi della destra gollista, a patto però di non ambire a diventare l’ennesima formazione di destra “moderata” con ammiccamenti al centro. Meglio mantenere il Fn come qualcosa di altro rispetto ai partiti di centrodestra. Fiamma o non fiamma. Simbolo che, personalmente manterrei: oggi il Front National non è certo quello di trent’anni fa, ma la naturale evoluzione dei partiti politici –chiamati a rispondere alle sfide del momento storico concreto, non a fare testimonianza- non obbliga a rinnegare le proprie origini. Anche perché agli elettori quel simbolo non sembra certo incutere timore o soggezione.
Infine ancora una riflessione. Come non concordare con Marco Valle sulla distanza tra intellettuali e partiti identitari. Una distanza quasi sempre frutto della disattenzione dei partiti stessi, più che di un’opposizione insuperabile da parte degli intellettuali. Ma di questo nessuna meraviglia. Basti pensare che in Italia il centrodestra di governo –a tutti i livelli: da quello nazionale a quello comunale- salvo poche, lodevoli eccezioni ha sempre evitato con cura di sostenere iniziative di gruppi ed associazioni culturali d’area. Meglio puntare, da bravi parvenu, su iniziative ed intellettuali “politicamente corretti” e magari dichiaratamente di sinistra, nel disperato tentativo di accreditarsi e mostrare di sé un volto presentabile. Gli effetti di queste scelte sono sotto gli occhi di tutti.