Il litio è cosa importante. Preziosa. Il litio ha innumerevoli utilizzazioni — nell’industria plastica e farmaceutica, in quella del vetro e della ceramica — ma una sola è quella che conta, che pesa. Il più leggero dei metalli (la sua densità 0,535 g/cm3 è pari a circa la metà di quella dell’acqua) è, infatti, indispensabile per produrre le batterie dei cellulari, dei lap top, dei veicoli elettrici, degli aerei. La mobilità dell’immediato domani. Goldman Sachs prevede che la domanda quadruplicherà entro il 2025: il litio per chi lo possiede, lo estrae e lo vende è ricchezza, tanto ricchezza. Il litio è il futuro.
L’estrazione del nuovo”oro bianco” è concentrata principalmente in Cile (33% della produzione mondiale) e Argentina (16%); i due Stati si spartiscono il “triangolo del litio”, un’area desertica che racchiude il 75 per cento delle riserve globali.
Sin’oggi un affarone per pochi eletti. Il minerale ha fatto (o meglio, ha fortemente incrementato) la fortuna del senor Julio Ponce Lerou, socio di maggioranza della Sociedad Quimicà de Minerales de Chile (Spqm), secondo uomo più ricco del Paese e 422° nella classica dei “paperoni galattici” stilata ogni anno da “Forbes”. Non a caso Elon Musk — l’uomo di Tesla, l’automobile elettrica per eccelenza — sta trattando con Lerou un mega contratto per assicurarsi forniture consistenti e stabili del metallo.
Un accordo importante. Come nota Patrizia Licata su “L’Automobile” l’azienda di Musk: «produce nella sua mega-fabbrica del Nevada non solo le super-car elettriche ma le celle a ioni per le batterie impiegate sia nelle auto Tesla sia nei sistemi d’accumulo di energia che Tesla vende ad aziende e privati. Un’alleanza con il colosso cileno Spqm permetterebbe a Munsk di andare alla “fonte” del litio ed eliminare il più possibile gli intermediari».
Nel fattempo Lerou ha venduto per 4,07 miliardi di dollari il 24% del suo gruppo ai cinesi di Tinaqi Lithium. Un’operazione coordinata personalmente dal presidente Xi Jinping: la Cina è il primo acquirente mondiale del minerale e ambisce a diventare tra pochi anni leader del mercato dell’auto elettrica
Per il nuovo presidente cileno Sebastian Pinera — un liberale-conservatore fratello di Josè, ministro del Lavoro e delle Miniere al tempo di Pinochet — un campanello d’allarme. All’indomani del suo insediamento il neo insediato governo di Santiago ha scelto di cambiare strada e il litio è diventato “risorsa nazionale”. Da qui la decisione di incrementare la produzione aprendo le porte, tramite gara pubblica, alle imprese straniere e, al tempo stesso, l’autorizzazione alla Codelco, la potente compagnia statale del rame, ad occuparsi dell’estrazione e della commercializzazione del materiale. Sarà infatti Codelco a sfruttare il giacimento Salar de Maricunga, una plaga desolata ai confini settentrionali ma zuppa di litio nelle sue forme più pure e quindi meno costose da estrarre. Al tempo stesso i cileni vogliono anche produrre le batterie a casa loro. Un salto di qualità. Ma entrare nel ristretto e molto competitivo club dei produttori — suddiviso tra Cina (62%), Usa (22%), Corea del Sud (13%) e Polonia (5%) — non è facile e servono investimenti importanti, tecnologia e personale qualificato.
Anche l’Argentina si sta muovendo nella medesima direzione. La produzione attuale è di circa 40.000 tonnellate annue ed è in continua espansione e, come i vicini, Buenos Aires sta muovendo i primi passi nella fabbricazione di batterie. Il problema sono sempre i capitali: gli anni delle presidenze populiste dei coniugi Kichner hanno impoverito il Paese e spaventato gli investitori internazionali; ora il governo Macrì sta cercando di recuperare offrendo trattamenti di fiscali assolutamente favorevoli alle aziende, con un occhio di riguardo per il ramo minerario. Una mossa pagante che ha convinto il gruppo italiano Seri ad acquisire il 40 per cento della società statale Jujuy Litio che prevede di creare a breve un impianto pilota capace produrre sino a 100 MW di batterie all’anno per i veicoli.
Nel “triangolo del litio” c’è anche la poverissima Bolivia. Il Paese sudamericano è potenzialmente l’Arabia Saudita del terzo millenio; secondo le stime dei geologi soltanto nell’area di Salar de Uyuni — il più grande deserto di sale del mondo sperso a quattromila metri d’altitudine — sono racchiuse nove milioni di tonnellate del metallo, ovvero un quarto delle riserve mondiali, e si ipotizza che la Bolivia celi nelle sue viscere addirittura la metà di tutto il minerale del globo. Una fortuna incalcolabile e un’occasione storica per uscire dal sottosviluppo.
Sfortunatamente per i boliviani a La Paz dal 2006 comanda Evo Morales, interprete di strambo impasto di sciovinismo andino e veterosocialismo. Il presidente, dopo aver nazionalizzato i settori di gas e petrolio, ha messo sotto tutela anche il litio. Respinte le offerte dei giapponesi di Mitsubishi e del francese Bollorè, ha affidato lo sfruttamento dell’”oro bianco” alla Yacimentos de Litio Boliviano, società interamente statale. Anche qui l’obiettivo, a partire dal sito industriale di Llpi (costato 925 milioni di dollari, un’enormità per la stremata economia locale…) è creare una filiera completamente autarchica, dall’estrazione alla purificazione fino alla fase finale di produzione.
«Sono nostri soldi, non abbiamo patner, siamo noi i padroni. Tra breve sarà la Bolivia a decidere il prezzo mondiale del litio!», ha gridato alla folla Morales inaugurando, lo scorso 4 febbraio, il centro tecnologico di Chapare, nel dipartimento di Cochabamba. Peccato che la Bolivia manchi di personale specializzato, di laboratori, d’infrastrutture, di capitali e sia appesantita da un sistema amministrativo e decisionale farraginoso quanto ideologizzato.
Al netto del velleitarismo di Morales, le prospettive non sono rosee: la produzione è minima (nel 2016 solo 25 tonnellate di carbonato di litio vendute ai cinesi) e il traguardo della 30mila tonnellate nel 2019 appare sempre più improbabile. Il rischio è la marginalizzazione. I mercati mondiali non hanno tempo e voglia d’attendere la Bolivia e il suo bizzarro leader.