16 marzo 1993: Milano è attraversata da un eterogeneo corteo giustizialista, al quale partecipano i partiti più disparati e volti noti dello spettacolo; ma, dice l’Autore, la manifestazione non passerà alla storia. Intanto, alcuni deputati del Movimento Sociale (il bolognese Filippo Berselli, il marchigiano Giulio Conti, il genovese Francesco Marenco e il veronese Nicola Pasetto) inscenavano un sarcastico “repulisti” del Parlamento, agitando guanti bianchi e spugne. Anche loro, secondo l’Autore, saranno trascurati dalla storia.
Saranno adombrati da un altro episodio, quasi istantaneo: un deputato (diventato tale, appena trentenne, l’anno prima; lo resterà sino al 1996) della Lega Nord, l’antennista comasco Luca Leoni Orsenigo, dall’alto della sua imponenza fisica agita, dagli spalti della Camera, un cappio: una scena la cui bruttezza sarà raggiunta, un mese e mezzo dopo, dal tentativo di linciaggio ai danni dell’ex premier Bettino Craxi. L’umorismo di Orsenigo (accolto con risa sguaiate dal suo gruppo, compresa la futura Presidente della Camera, Irene Pivetti, con lo sgomento dell’allora titolare Giorgio Napolitano) era orribile: si era nel pieno della stagione dei suicidi (per citare soltanto più noti: nel settembre ’92 si era ucciso, con una fucilata al volto, Sergio Moroni; nel luglio ’93 lo faranno due protagonisti dello scandalo Enimont, Gabriele Cagliari soffocandosi in carcere e Raul Gardini con un colpo di pistola nella sua residenza milanese, Palazzo Belgiojoso). Ma l’opinione pubblica accolse con favore il suo “coup de théatre”: nella succitata manifestazione (come già in altre) non mancavano striscioni e cori che auspicavano la forca per i “forchettoni”.
L’immagine del parlamentare leghista che agita il cappio nell’aula di Montecitorio spopolò sulle prime pagine dei quotidiani, diventando una delle più emblematiche di Mani Pulite, assieme a quelle del democristiano Enzo Carra trascinato dai carabinieri con gli schiavettoni senza un valido motivo, di Bettino Craxi assalito dalla folla e del pool (Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Francesco Saverio Borrelli; mancavano Piercamillo Davigo e Gerardo D’Ambrosio) a spasso per la Galleria Vittorio Emanuele II, con la scorta della gente. Poco meno di trent’anni dopo, torna in libreria, sulla copertina d’un ponderoso tomo dedicato a un’epoca che si pretende essere finita, senza che lo sia per davvero.
Secondo libro in due anni (il precedente è “30 aprile 1993. Bettino Craxi: l’ultimo giorno di una Repubblica e la fine della politica”, dedicato a uno dei momenti più critici di Tangentopoli – il voto sull’autorizzazione a procedere nei confronti del leader socialista, il passaggio dal governo Amato a Ciampi, l’aggressione dei manifestanti a Craxi all’uscita dell’hotel Raphael – e recensito, su queste stesse pagine, da Massimo Corsaro nell’articolo del 6 giugno 2021: “30 aprile 1993, l’ultimo giorno della Politica. Il libro di Filippo Facci”) scritto dal giornalista (di vaglia) Filippo Facci sull’epopea di Mani Pulite: rendendone il tono grottesco, ma trattandola con estrema serietà; alternando (come già con “30 aprile 1993”) la cronaca nazionale al vissuto personale (all’epoca dei fatti, Facci era redattore – a titolo gratuito – del sovvenzionatissimo ma agonizzante “Avanti!”, e divenne amico dello stesso Craxi).
Le immagini di quella saga tragicomica ci sono tutte: dall’estremo gesto, compiuto con dignità da samurai, di Sergio Moroni, alla risibile comparsata di Walter Armanini; dal mesto spegnimento di Giuseppe Goria, a La Malfa jr. che fonda un ideale “Partito degli Onesti” per poi essere condannato per finanziamento illecito (dopo essere stato bersagliato a sputi dai missini); da Giovanni Falcone che, non bastandogli la lotta contro Cosa Nostra, dovette affrontare certa “antimafia”, ai magheggi milanesi di Antonio Di Pietro, il Robocop giunto da Montenero di Bisaccia a fare giustizia. Forse.
“30 aprile 1993” era un grande libro, una furibonda cavalcata che, partendo da un episodio emblematico, osservava una fase cruciale della storia italiana – o meglio, tre fasi: la fine della Prima Repubblica, la spaccatura di Tangentopoli, l’esordio della Seconda Repubblica. “La guerra dei trent’anni” ne recupera la formula: ricordi ed esperienze personali (qui staccati dal resto del testo, con paragrafi in corsivo), e il loro intrecciarsi con la macrostoria. Sulla scorta d’una documentazione imponente, forse tutto lo scibile riguardo quegli anni; e di riflessioni acute e profonde, soprattutto sull’iter giudiziario (le inchieste e i loro passaggi, anche minimi, sono analizzati con una precisione e una cultura giuridica che manca a coloro che sinora hanno preteso d’essere i custodi della “verità” su Mani Pulite: Gomez, Travaglio e Barbacetto – che ancora col recente “La beatificazione di Craxi. Le falsità e i luoghi comuni sul leader politico che continua a dividere gli italiani” ha ritenuto doveroso fare ancora caciara con semplificazioni e distorsioni), sulle questioni economiche (aggiustando per esempio i conti sulla chiacchieratissima questione del debito pubblico, e su quanto le mazzette per gli appalti abbiano davvero pesato sulle tasche dell’Italia e degli italiani) e sulla grande trasformazione della politica italiana che è conseguita a quanto accaduto nel 1992-’93-’94 (e ancora negli anni successivi).
Facci si tiene lontano dalle spiegazioni più balzane, siano quelle complottiste (ossia le tesi d’un intrigo internazionale volto a rovesciare l’equilibrio politico italiano – magari a partire da un’assurda vendetta per Sigonella; ma, com’è ragionevole, non si astiene dal menzionare l’infame banchetto a bordo dello yacht Britannia) o quelle giustizialiste. Così come non scade nell’abusata glorificazione della Prima Repubblica: una generazione di politici annaspava (lo stesso Craxi dal 1989 sbagliava tutto, arrivando persino a lanciare un assist a quella stessa antipolitica che poi lo sopprimerà – l’invito ad astenersi dal referendum di Mario Segni per la presenza unica, nel 1991), i partiti agonizzavano (l’unico che uscì indenne dalle inchieste – il MSI: che era anche il solo a non amministrare nulla – dovette presto risorgere dalle sue stesse ceneri), e la classe dirigente rappresentava uno spettacolo orribile (non paga di aver alimentato il sistema di tangenti, si spaccerà poi per vittima: e Facci è molto attento alla differenza tra corruzione e concussione – lo stesso Craxi l’aveva rilevata nel suo interrogatorio al processo Enimont, ma come in quel periodo doveva accadergli, rimase inascoltato). A Cesare quel che è di Cesare, ai politici le loro colpe: ma nulla giustifica le “grida spagnolesche”, le messe alla gogna, le volanti parcheggiate lontano dai cancelli del carcere per far percorrere agli inquisiti metri e metri con puntate addosso le macchine fotografiche, le istigazioni al suicidio e le esultanze quando qualcuno lo commetteva, la distorsione sistematica dell’avviso di garanzia (come specifica il nome, una tutela della quale dovrebbe beneficiare l’inquisito; diventata invece, ormai anche nel linguaggio comune, sinonimo di colpevolezza e sentenza di condanna al pubblico ludibrio).
La fine della Prima Repubblica, spiega bene Facci, avrebbe dovuto accadere, in un modo o nell’altro: il collasso di tutto un sistema era garantito dalla fragilità delle sue stesse fondamenta. Il modo con cui lo si è attuato resta disonesto, con tratti di barbarie. Per mesi, per anni il 90% (un sondaggio registrò che tale era la quota di opinione pubblica favorevole all’opera del pool di magistrati) della popolazione italiana si illuse che fare come i deputati del MSI, ossia mettersi i guanti sterili e passare la spugna sul Parlamento, avrebbe sanato l’Italia: sicumera basata sulla convinzione (assurda, se non idiota) secondo la quale i soldi del finanziamento illecito bastavano a spiegare il debito pubblico e l’inflazione, e che si trattava delle stesse quantità di denaro che mancavano a milioni di famiglie per vivere con lo stesso benessere dei due decenni precedenti. Molti di costoro, quando il giustizialismo di Mani Pulite – previa visita alla Guardia di Finanza, con l’inchiesta “Fiamme Sporche” – toccherà anche i vizi dei privati cittadini (scontrini non emessi, fatture alleggerite, lavoretti in nero, disinvoltura con le dichiarazioni catastali), si renderanno conto che l’intransigenza è meno divertente, vista da vicino.
Resterà comunque forte la voce dell’Italia peggiore: quella delle frasi fatte, da “tanto sono tutti uguali” a “tanto non cambia niente”, quella sempre in cerca di scuse per non ammettere che se non si va da nessuna parte non è tanto per colpa di qualcun altro, ma per il proprio rifugiarsi nel rifiuto di darsi una mossa. L’Italia qualunquista, quella che anni dopo Mani Pulite ha acclamato il Vaffa Day e che alle elezioni del 2018 ha fatto sfiorare al Movimento 5 Stelle, il partito dell’antipolitica (nonché dell’incompetenza, dell’incultura, dell’incapacità) un terzo dei voti (32,7% alla Camera, 32,2 al Senato).
Facci non rifiuta l’opinione stando alla quale la Seconda (o forse, la Terza) Repubblica è molto peggio della Prima: hanno finito per ammetterlo Indro Montanelli (accanito detrattore dei partiti che stavano per estinguersi) e persino Borrelli. È un dato di fatto sin troppo evidente, come il susseguirsi di notte e dì. Ma va oltre questa constatazione: la argomenta, ne analizza i lati convincenti e le criticità, e la approfondisce, con l’onestà intellettuale che è sempre mancata ai tifosi del pool (il suo bersaglio è Goffredo Buccini, che con un suo ottimo libro – “Il tempo delle Mani Pulite” – ha ripensato quell’epoca; perché con Gomez, Travaglio e Barbacetto è assurdo discutere). Non è, per esempio, un ammiratore di Giulio Andreotti: ma ne analizza le vicenda giudiziaria da inquisito per associazione mafiosa, traendone le conclusioni (non le sentenze) che un giornalista serio può e deve (anzi, dovrebbe) scrivere.
Ahinoi, l’opinione pubblica preferisce le sparate d’un Pif qualsiasi. Andreotti se ne farà una ragione. Dovrebbe riflettere invece con meno leggerezza la sinistra italiana, che si illuse di trarre vantaggio dall’abbattimento dei totem della Prima Repubblica, ed è finita con l’affidare, per le elezioni politiche del 2022, il suo movimento maggiore, il Partito Democratico, al suo segretario peggiore, Enrico Letta, che è riuscito nella titanica impresa di far rimpiangere il PDS di Achille Occhetto, forse persino la Margherita di Francesco Rutelli.
Dio non gioca a dadi col mondo, e nemmeno la storia lo fa con i suoi personaggi.
Filippo Facci, La guerra dei trent’anni. 1992-20022: Le inchieste, la rivoluzione mancata e il passato che non passa
Marsilio Editore – Gli specchi, Venezia aprile 2022
752 pagine, 25 euro