La disorganizzata ritirata americana dall’Afghanistan, più simile ad una fuga per come è stata maldestramente gestita dall’amministrazione Biden, ha reso evidente al grande pubblico quel che gli osservatori più attenti sapevano ormai da anni: nelle brulle vallate afghane – più ancora sulle sue sassose montagne – la coalizione occidentale formata dalla superpotenza americana e dai suoi clientes è andata incontro ad una delle più cocenti sconfitte del dopoguerra.
Venti anni non sono stati sufficienti agli Stati Uniti per dare forma e sostanza ad uno stato afghano che fosse qualcosa di più di un regime di cartapesta, tenuto insieme più dai generosi finanziamenti internazionali – destinati ad alimentare l’endemica corruzione del Paese – che dall’adesione convinta ad un progetto di costruzione ex novo di uno stato rispondente ai criteri di (discreta) efficienza di stampo occidentale. Risultato rivelatosi impossibile da raggiungere non solo perché si è pensato di trapiantare in Afghanistan modelli completamente estranei alla realtà socio-culturale di quel Paese – in una visione, questa sì, puramente neocoloniale, paradossalmente applaudita e sostenuta con entusiasmo dalle sinistre liberal europee ed americane -, quanto soprattutto perché a Washington non hanno mai saputo realmente cosa farsene dell’Afghanistan.
Vinta nel giro di un paio di settimane la guerra guerreggiata contro gli studenti islamici ed i seguaci di Bin Laden loro ospiti, la superpotenza ha fallito nella conquista di “cuori e menti”, uno dei principali obiettivi di chi scende in campo per combattere una “piccola guerra”, ovvero una guerriglia come quella in cui i talebani – ed altre formazioni islamiste – hanno trascinato per un ventennio gli eserciti occidentali. Certo, in questi due decenni non sono mancati progressi nel campo dell’accesso all’istruzione, dell’assistenza medico-sanitaria, nell’eliminazione di inconcepibili (per noi europei ed occidentali) discriminazioni nei confronti delle donne, ma tutti questi “progressi” sono rimasti prevalentemente confinati nelle aree urbane dell’Afghanistan. Le sterminate “periferie” di questo aspro Paese sono rimaste pressoché estranee a questo processo. E la rapidissima ed incontrastata avanzata talebana – con parallelo disfacimento dello stato afghano – all’indomani della ritirata occidentale è lì a dimostrarlo.
Le immagini dell’evacuazione con gli elicotteri delle ambasciate occidentali di Kabul hanno consentito di evocare un facile parallelismo con quanto avvenne a Saigon nell’aprile del 1975, allorché vietcong ed esercito nordvietnamita travolsero l’esausta repubblica del Vietnam del Sud costringendo gli americani ad un’evacuazione altrettanto rapida e disordinata come quella andata in scena in Afghanistan. Un parallelismo che negli Usa ha rievocato vecchi fantasmi – e un trauma forse mai veramente superato dalla società statunitense – e dato la stura a più o meno dotte analisi sui motivi del fallimento politico-militare americano. Identico copione andato in scena in Italia. Pochi, però, hanno colto una fondamentale differenza rispetto alla vicenda vietnamita: questa volta ad essere trascinati nella polvere della sconfitta non sono stati solo gli statunitensi.
La maledizione della “tomba degli imperi” – ovvero quell’Afghanistan capace di frustrare le ambizioni della Gran Bretagna vittoriana così come quelle della Russia sovietica – ha colpito questa volta anche gli alleati della superpotenza, imponendo loro un pesante dazio per la ventennale campagna asiatica. Tra questi anche l’Italia, Paese cui l’avventura afghana è costata 53 caduti, circa 700 feriti e poco meno di 10 miliardi di euro. Un onere notevole versato a fronte di cosa? Perché, in fin dei conti, è questa la domanda che in pochi – troppo pochi – si sono posti: perché siamo andati in Afghanistan?

Poche le domande, ancor meno le risposte. Fatte salve quelle improntate all’insopportabile – ma soprattutto vacua ed insostenibile – retorica della “missione di pace”. No, gli italiani in Afghanistan non sono andati a regalare caramelle – non solo -, ma a combattere. Seppure all’italiana, ovvero con mille restrizioni nelle regole d’ingaggio – a tratti imbarazzanti nei confronti di americani e britannici, ben consapevoli che nelle pietraie afghane l’obiettivo principale era “neutralizzare”, ovvero ammazzare, i talebani – ed a condizione di non far trapelare nulla in patria dell’impegno sul campo di battaglia dei nostri migliori reparti. Pena incrinare quel muro di ipocrisia su cui si fonda(va) la retorica della missione umanitaria.
Ma allora cosa ci siamo andati a fare, effettivamente, in Afghanistan? Per cosa sono morti 53 nostri militari? Di sicuro non siamo andati a difendere nessun interesse strategico del nostro Paese. La dura realtà – depurata da ogni fronzolo ed abbellimento moralistico ed umanitaristico – è che in Afghanistan siamo andati per recitare la parte che tocca ad ogni cliente nei confronti del dominus: compiacerlo e, magari, alleggerirlo in qualche mansione secondaria. L’Italia, una volta di più, ha dimostrato di non avere alcuna visione della propria proiezione internazionale, mostrandosi incapace di individuare – anche all’interno di uno scenario bloccato quale è quello che si confà ad una media potenza regionale – dei settori in cui il proprio intervento risulta funzionale alla tutela degli interessi geo-strategici del Paese. Una possibilità che si offre anche a Paesi a sovranità limitata, come appunto l’Italia, che possono muoversi sulla scena internazionale solo a patto di non turbare gli equilibri imposti/graditi dal dominus di riferimento. Gli Stati Uniti nel nostro caso.
Più che inseguire talebani sulle montagne afghane – a condizione di non farlo sapere in Italia! – decisamente più proficuo sarebbe stato l’impegno dei nostri militari – e delle ingenti risorse economiche dilapidate senza vantaggio in Asia centrale – nello scacchiere del Mediterraneo allargato, questo sì centrale per gli interessi geo-strategici italiani e ben più turbolento rispetto al recente passato. E non è detto che il dominus d’oltreoceano non avrebbe gradito maggiormente, consentendo al nostro Paese di maturare qualche credito da riscuotere in futuro, come acutamente osserva Lucio Caracciolo.
“Invece – scrive il direttore di Limes – di battere bandiera a casaccio in giro per il mondo, addestrando e armando i nostri futuri nemici solo per ostentarci serventi alla causa del Superiore e ottenere l’esatto opposto di quanto proclamato, potremmo finalmente concentrare le nostre scarse risorse, non solo militari, nelle aree di immediato interesse. Con la benedizione di Washington, o almeno dei suoi apparati meno disorientati. I quali sì, a quel punto, potrebbero riconoscerci sia pur limitatamente utili, dunque abilitarci a chiedere qualcosa in cambio”.
Il problema, però, è tutto nella chiosa finale del ragionamento di Caracciolo: “Posto che noi si sappia quel che vogliamo”. Perché, in fin dei conti, il problema italiano è tutto qui: da almeno trent’anni – ben prima dunque dell’arrivo alla Farnesina del prode “Giggino”, coronamento di un processo di decadimento qualitativo delle istituzioni di cui i 5 Stelle sono solo uno degli ultimi prodotti – a governare la Penisola c’è una classe dirigente (sic!) assolutamente incapace di immaginare una proiezione del sistema Paese oltre i confini nazionali, peraltro sempre più permeabili ed evanescenti. Tutto si riduce ad un vuoto ossequio alla retorica europeista ed atlantista, senza rendersi conto che anche all’interno di questi spazi ci sono margini di manovra ed opportunità che vanno colte e sfruttate nell’interesse collettivo.
Una debolezza, questa, che è ormai strutturale e, purtroppo, patrimonio condiviso non solo della classe politica – sovranisti e patriottardi inclusi -, ma anche di buona parte della classe dirigente ed imprenditoriale italiana.