Prima il “green” delle auto elettriche che costano come un piccolo appartamento, e che nessuno vuole né può permettersi se non a leasing o noleggio, ma che dovremo farci piacere grazie a un simpatico meccanismo di accerchiamento che ci escluderà via via l’accesso al termico, malgrado il vasto potenziale residuo di tale tecnologia e l’inadeguatezza delle infrastrutture a sostenere la “transizione”; poi la crisi energetica più o meno pilotata (ad ingrassare la finanza internazionale) che fa perdere ancora più terreno alle PMI contro i grandi player, che hanno le tasche profonde per comprarsi il CO2 da emettere e la schiena larga per sopportare le scudisciate verdi – che convertono quasi in carezze speculando sugli ETF con i loro ingenti capitali e uscendo dall’operazione con un bilancio positivo.
Ed ecco infine che la mannaia green cala sulle case per la resa dei conti finale con i ceti medi e bassi: con la direttiva UE in arrivo sull’adeguamento energetico obbligatorio degli immobili onde poterli vendere o concedere in locazione, ci prepariamo alla tempesta perfetta dell’impennata dei costi del mattone usato, insieme al rincaro delle locazioni, dovuto al fatto che il locatore dovrà alzare i prezzi per ammortizzare le incombenze dell’adeguamento energetico calato dall’alto, salassando così il locatario.
A rimetterci maggiormente – manco a dirlo – chi è meno economicamente “resiliente”: infatti in media chi vive in affitto ha redditi più bassi (e non affitta certo in classe A4), come anche chi acquista immobili già “vissuti”, che vedrà quindi o lievitare il prezzo di acquisto, oppure sarà costretto ad aumentare la capienza del mutuo per includere anche le ristrutturazioni a cui sarà obbligato a stretto giro dall’acquisizione dell’immobile per soddisfare pretenziosi requisiti energetici. E che sarà mai un’altra decade o due di rate? Uniche a godere sono infatti le banche, che guardano con trepidazione al crescere dell’indebitamento privato per esigenze di vita basilari, e il tutto durante la crisi inflattiva del secolo, in un contesto di generalizzato rincaro dei costi delle materie prime, anche quelle alimentari – e quindi della vita in generale. Senza pur voler spingere tesi troppo cervellotiche e complottiste, nella tenaglia tra crisi pandemica, crisi economica e supposta crisi climatica, sembra proprio che si entri a larghi passi nel mondo del “Grande Reset” preconizzato da Klaus Schwab nell’omonimo libro, in cui ci troveremo ad abitare entro il 2030, quando “non possederemo nulla e saremo felici”.
Quanto alla solidità della prima parte di profezia ho sempre meno dubbi, ma per inverare anche la seconda sarà il caso di liberalizzare le droghe alla svelta per anestetizzarci prima dell’impatto, e di già di renderle gratuite e di stato, come nel “Brave New World” di Huxley, perché dopo il salto nel vuoto che ci attende, tra le rocce aguzze che si avvicinano veloci sotto di noi non si scorgono grandi motivi di gioia.
James Burnham, nel suo libro “The Managerial Revolution”, già dal lontano 1940 profetizzava anche lui del mondo a venire, che immaginava però diverso dalla terra di latte e miele dei turbo-progressisti di Davos. La società a venire non sarebbe stata né capitalista né democratica, e la proprietà privata sarebbe stata abolita, sì, ma non in nome di quella comune. Una nuova classe di mega-manager, super-tecnici, burocrati e militari, sarebbe infatti emersa eliminando la vecchia guardia capitalista, livellato verso il basso tutta la società al di sotto della sua altezza, detenendo la proprietà e il controllo di tutti i mezzi di produzione.
Le nuove società tecnocratiche, cresciute sotto alla pelle rinsecchita delle vecchie nazioni, sarebbero state delle aristocrazie imprenditoriali di “migliori”, super uomini dell’industria e della finanza, tecnici con in mano tutto il potere da esercitare su masse di semi-schiavi, contese come bottino di guerra in scontri tra imprenditori-titani, con le istituzioni democratiche ridotte a fregio decorativo nel tempio del libero mercato. Queste nuove élites avrebbero smantellato la vecchia classe capitalista con un golpe dall’interno, facendola collassare, proprio come ai tempi della Rivoluzione Francese fece la massoneria con la nobiltà decadente, ma ancora al potere: questa fu attratta verso le scogliere da un canto di sirene, illusa con il miraggio di un rinnovato prestigio basato su un fittizio “ordine nuovo” ancorato su privilegi esoterici e spirituali, spingendola per converso ad abbandonare quelli politici, svuotandola di sostanza e riempiendola d’aria ideologica fino farla esplodere e gettarla già sventrata tra le grinfie del popolo in rivolta, aizzato ad arte. Questa nuova classe di managers sarebbe salita ai suoi fasti proprio così, indisturbata e tra gli applausi dell’imprenditoria tutta, illusa di aver guadagnato una quota di potere aprendo la porta all’ultra-liberismo e alla tecnocrazia, convinta di aver messo sugli scranni del potere “uno di loro”, e ignara di aver introdotto invece un lupo nel suo ovile.
Fantasie e suggestioni di menti troppo ottimiste, o troppo cupe? Difficile dirlo, ma appare sempre più evidente che a questa felicità che ci attende (se mai ci attende) passata la stagione delle “transizioni”, si arriverà con il portafogli molto leggero. Insomma, se le cose stanno davvero così, c’è solo da sperare che in tale salvifico futuro non ci serva del tutto.