Diverse sono le esperienze, oltre naturalmente le sue delicate, traumatizzanti, indelebili, narrate da Mario Calabresi con uno stile pacato, piano, al pieno giornalistico. L’autore ripercorre “storie di resilienza, di coraggio, di cambiamento” di donne e di uomini, capaci “di guardare oltre il dolore dell’oggi, per costruirsi un domani”. Nel caso personale è stato in grado di fabbricare un futuro, una vita professionalmente normale.
Non mancano, però, ad essere onesti e principalmente espliciti, pagine in cui il giornalista, direttore de “La Stampa” (2009 – 2015) e fino al febbraio dello scorso anno, dopo più di 3 anni, accantonato di “Repubblica”, si palesa miope, prevenuto, aprioristico. Scrive largamente, ad esempio, condannando, sulle vicende cilene, ma si guarda bene dal tracciare vicende di analogo amaro segno accadute in Cina, nella Cina, nella Corea del Nord, a Cuba o in Venezuela.

Parla severamente dei “deliri” del presidente nicaraguense Ortega, etichettandolo semplicemente ed equivocamente come “sandinista”. Riferisce la vita di una ottantenne, sopravvissuta ad Auschwitz, senza chiedersi se esistano casi identici di superstiti dai “Gulag” rossi.
Francamente piena delle solite considerazioni sulla prepotenza fascista ma arida di analisi avvedute e sensate è la rivisitazione della vita del bisnonno, che, discriminato dal regime per il suo rifiuto “di prendere la tessera”, poi da nessuno ostacolato, politicamente e burocraticamente, è in grado di aprire una “piccola” officina, poi ingranditasi, sempre a Torino, con un numero di operai (50), tutt’altro che trascurabile. Una sorta di nemesi storica volle che questo parente – è ancora Calabresi a scriverlo – nel 1942 ebbe la casa e la fabbrica “completamente distrutte dalle bombe inglesi”.
Più avanti cita una lapide commemorativa di 7 contadini, fucilati dai nazifascisti, ben lungi dall’interrogarsi sulla totale inesistenza sull’intero territorio nazionale di targhe commemorative di fascisti, notoriamente immortali ed imbattibili.
Nel capitolo finale, il XII, “Un vento fortissimo”, si sofferma sull’incontro con Giorgio Pietrostefani, organizzatore dell’assassinio del padre Luigi. L’aspetto più incisivo nella rievocazione di Calabresi, capace di provocare riflessioni radicali sulla natura reale degli avvenimenti nostrani della seconda metà dello scorso secolo, è la sottolineatura, pur tacita e implicita, dell’inerzia dello Stato e dei governanti italiani, incapaci di contestare e scavalcare la “dottrina”, che reca il nome del presidente socialista François Mitterand, “che regnò per tutti gli anni Ottanta e per ben metà del decennio successivo”, inapplicabile “a chi come Pierostefani aveva le mani sporche di sangue”.