In linea con la recente ansia pre-elettorale per un temuto ritorno del Fascismo, nei mesi scorsi si è parlato molto dei presunti meriti – e dei sicuri demeriti – del Ventennio. Ovviamente lo si è fatto con la solida approssimazione, da una parte e dall’altra. Ad aprire il tira-e-molla su meriti e responsabilità del Fascismo sono state alcune affermazioni di uomini politici del centro-destra o della destra tout court. Affermazioni subito derubricate a livello di “fake news” dai pronti e vigili “debunkers”, cioè gli smascheratori delle “bufale”. Gente che viene presentata come preparata e puntuta, abituata a quella pratica definita, col solito inglese di cui sembra non si possa fare a meno, come “fact checking” cioè il “controllo dei fatti”. Un particolare accento è stato messo sulla politica sociale del Fascismo, uno dei campi in cui in genere sembrava possibile che il regime di Mussolini abbia effettivamente fatto qualcosa di buono. Ammesso che questo sia possibile quando si parla di Fascismo visto che dal Presidente della Repubblica fino agli ormai ex presidenti delle Camere (e poi via via ministri, leader politici, presidenti di associazioni, intellettuali, giornalisti, conduttori tv e radio ecc. ecc.) hanno ripetutamente sostenuto che non “esiste un Fascismo buono”. Si è parlato di architettura e leggi razziali, di gas e di leggi speciali, di politica estera e, appunto, di politica sociale. Ci concentreremo su quest’ultimo aspetto che, insieme ai monumenti da abbattere, è quello che ha tenuto più banco. Anche perché è quello che riporta più da vicino i problemi dell’oggi.
Davvero dobbiamo al Fascismo, ad esempio, le tredicesime? Le pensioni e pure la Previdenza sociale? E magari anche la Cassa integrazione? Dilemmi lancinanti che hanno spinto alcuni volenterosi a mettere sull’avviso i tanti, troppi, ignari con sferzanti interventi su siti web e sui social. Citiamo tra i tanti Giovanna Faggionato che su “Lettera 43” (www.lettera43.it) il 5 febbraio 2018 ha sentenziato: «la prima cassa di previdenza per la vecchiaia e l’invalidità nasce per gli operai nel 1898 negli anni della destra storica (Nota Bene: Faggionato ignora che l’esperienza della Destra storica si concluse nel 1876, quindi 22 anni prima di quanto lei pensa…, NdR) e delle lotte socialiste. E poi 21 anni dopo, nel 1919, come è scritto chiaramente nel sito dell’Inps, “l’assicurazione per l’invalidità e la vecchiaia diventa obbligatoria e interessa 12 milioni di lavoratori”». E poi: «La riabilitazione del fascismo viaggia ancora oggi per molti canali. Uno è proprio l’attribuzione al regime di interventi sociali realizzati in altri periodi storici». E infine: «E’ sullo stato sociale che si accumulano le bufale più grosse. Al contrario di quello che potrebbe dire (e ripetere) Salvini: il regime fascista non ha introdotto il sistema delle pensioni e nemmeno la 13esima».
Altre perle sono arrivate da una blogger ospitata sulla piattaforma del “Fatto Quotidiano”, Francesca Fornario (giornalista e autrice satirica) che si è presa la briga di raccontare, il primo marzo 2018, di quando ha incontrato un ragazzino sedicente fascista e lo ha messo a posto con alcuni “puntuali” riferimenti storici: «Controlliamo quanto c’era da mangiare durante il ventennio fascista. La quantità di carne, formaggio, uova, latte che l’italiano medio poteva consumare. Gli italiani avevano cibo a sufficienza o morivano di fame? E la risposta è… ta-daaaa!!! Ecco, guarda questa era la frutta e la verdura. Vedi? E queste le proteine… zero! Per questo erano tutti magri! Avevano fame. Tutti tranne Mussolini e i suoi amici, eh. Loro banchettavano a Villa Torlonia e infatti avevano una discreta pansa, pure se nelle foto gonfiavano il petto per cercare di tirarla in dentro. E guarda che cosa è successo appena ci siamo liberati di quell’affamatore di popoli di Mussolini, guarda questa linea che sale… Cibooo!!!». Peccato poi che l’improvvida riporti nel suo articolo un paio di tabelle Istat sui consumi di frutta, ortaggi, carne e pesce in Italia dal 1865 al 2015. E che da queste tabelle risulti che nel 1935, cioè dopo 13 anni di governo di Mussolini, i consumi erano gli stessi del 1955, cioè agli albori del boom economico, dieci anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
Per mettere un po’ d’ordine “Storia In Rete” ha interpellato il professor Giuseppe Parlato, docente universitario di Storia contemporanea presso Unint Roma, membro del comitato scientifico del nostro giornale, allievo di Renzo De Felice, presidente della “Fondazione Ugo Spirito e Renzo De Felice” e profondo conoscitore della politica sociale del Fascismo in virtù di lunghi studi sul sindacalismo in camicia nera e, più in generale, su quella che viene definita la “sinistra fascista”, cioè l’ala più sociale e rivoluzionaria del Fascismo.
Iniziamo dal contesto generale: perché tanto scandalo di fronte ai provvedimenti sociale, veri o presunti, del Fascismo?
Lo scandalo dipende da una vecchia visione demonizzante del Fascismo, che ha le sue origini nella interpretazione gobettiana del regime. Nel senso che il Fascismo non è più un fenomeno storico ma è un oggetto indistinto, privo ormai di coordinate storico-temporali che aleggia come “male assoluto” sulla storia italiana e non solo. Viene quindi definito il “male” per eccellenza. Questa ansia di demonizzazione può essere spiegata e compresa dal punto di vista politico ma in chiave di interpretazione storica diventa pericolosa perché obbliga a posizioni unilaterali e “giustizialiste”, come si dice oggi. Questa è l’epoca del moralismo a poco prezzo. Rileggendo uno scritto giornalistico di De Felice (li stiamo pubblicando per la Luni editrice, siamo al secondo dei tre volumi, ciascuno di due tomi…), vediamo che già negli anni Settanta, De Felice criticava quanti vogliono trasformare la storia in un tribunale della moralità, ovviamente con i valori di oggi che dovrebbero giudicare i comportamenti di ieri. In questa ansia moralizzatrice, per principio del Fascismo non si può parlare che male. Poi succede però che su alcune questioni il Fascismo si sia dato da fare e abbia contribuito a una certa modernizzazione del paese. Ma invece di studiare questi aspetti, li si ignora per evitare di passare dalla storia moralistica a quella vera».
Stiamo ai fatti: tra il 1922 e il 1940, anno della nostra entrata nella Seconda guerra mondiale, come stavano i lavoratori italiani?
«Non è facile rispondere. Possiamo dire che complessivamente stavano meglio rispetto agli anni precedenti, compatibilmente con le situazioni di crisi che l’Italia vivrà tra le due guerre mondiali. D’altra parte, la situazione dei lavoratori (ma anche della borghesia) era, all’indomani della vittoria nella prima guerra mondiale, tutt’altro che gradevole. Le difficoltà della riconversione da una economia di guerra a una “normale”, il ritorno dei militari che chiedevano di ritrovare o avere un posto di lavoro, le difficoltà delle finanze dello Stato dopo la guerra… Tutto questo portò a una situazione gravissima che sfociò nel “biennio rosso”: occupazioni, scioperi, violenze contro i militari tornati dal fronte e contro i “borghesi”, difficoltà dello Stato liberale a fronteggiare questi disordini. Senza questa situazione non si comprende l’ascesa del Fascismo al potere. La politica liberista del primo ministro del Tesoro e delle Finanze del Governo Mussolini, Alberto De Stefani, in carica dal dicembre 1922 al 1925, non favorì certo il mondo del lavoro, né sotto il profilo dei prezzi, né sotto quello dei salari. Qualche miglioramento vi fu invece in merito alla occupazione: tra il 1922 e il 1925 i disoccupati si ridussero di oltre la metà, anche grazie all’inizio della politica di opere pubbliche. La crisi inflazionistica del 1924-26 mise in crisi gli aumenti salariali che si erano raggiunti tra il 1921 e il 1923 e soltanto la politica deflattiva del suo successore, Giuseppe Volpi di Misurata, riuscì a contenere i prezzi, riuscendo a produrre una momentanea ma significativa crescita del potere di acquisto dei salari. Nel 1923 la retribuzione reale (e cioè il suo rapporto con il costo della vita) ha un valore indice di 116,0; nel 1940 il valore è di 108. Nel corso degli anni vi è una continua fluttuazione: nel 1927 l’indice è a 121 mentre nel 1934 è 124,2. Dopo il 1934 si sviluppa l’inflazione che erode i salari reali: ma, attenzione, se guardiamo gli indici dei salari nominali vediamo che essi scendono di oltre cento punti dal 1930 al 1935 (da 512 a 404), ma i salari reali scendono solo di 1,2 punti (da 119 a 117,8) e anzi la maggiore crescita salariale si ha fra il 1933 e il 1934; ciò è possibile perché il regime ha impostato un meccanismo quasi automatico di riduzione dei prezzi che mantiene alto il salario reale pur diminuendo quello nominale.
Insomma, invece di alzare gli stipendi si fece in modo di abbassare i prezzi. Il contrario di quanto è stato fatto con l’avvento dell’euro. Con la grande crisi del 1929 la situazione cambia un po’ per tutti, Italia compresa. Cosa decide di fare il Regime per contenere la crisi?
Il colpo è micidiale. Le industrie sono ferme e la condizione dei lavoratori è molto difficile. Il governo non è in grado di difendere più di tanto i livelli salariali, ma qui intervengono due elementi, tra loro concatenati: la Carta del Lavoro e la costruzione dello Stato sociale. Prima che scoppiasse la crisi del 1929, l’Italia aveva posto in essere un progetto di Stato sociale che è già visibile nella Carta del lavoro (1926). Qualche segnale comunque c’era stato anche prima: già nel marzo 1923 viene sancita la giornata massima lavorativa di otto ore (era il cavallo di battaglia dei socialisti prima della guerra) e nel dicembre successivo viene dichiarata obbligatoria l’assicurazione contro l’invalidità e la vecchiaia, primo passo per la creazione di una struttura pensionistica, prima inesistente in questa forma, perfezionata nel 1927 ed estesa agli eredi. La Carta del Lavoro sviluppa una ideologia “previdenzialistica” e i campi di intervento sono: perfezionamento e l’estensione dell’assicurazione infortuni (realizzati con decreto del dicembre 1926), delle malattie professionali e della tubercolosi (assicurazione contro la tubercolosi, 1927, mutue obbligatorie nel maggio 1929, della disoccupazione involontaria. Nel 1934 poi fu istituito il contratto collettivo di lavoro – che non tutti in Europa allora avevano e oggi non abbiamo più – e contemporaneamente vengono introdotti gli assegni familiari; nel 1935 viene introdotta la settimana lavorativa di 40 ore allo scopo di riassorbire la disoccupazione; fra il 1934 e il 1938 viene allargata a tutti i settori produttivi l’assicurazione obbligatoria di malattia; l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, prima della guerra molto ristretta, fu estesa a tutti i settori produttivi con la creazione dell’Infail (Istituto nazionale fascista assicurazione infortuni sul lavoro che, nel dopoguerra, diverrà l’Inail), che sostituì la vecchia Cassa nazionale infortuni. Fra il 1929 e il 1935 si definisce l’assicurazione contro le malattie professionali (prima sconosciute) e questa materia viene affidata all’Infps che si potenzia diventando, dal 1934, il motore dello Stato sociale; sempre all’Infps viene affidato il settore sempre più vasto dell’assicurazione contro l’invalidità e la vecchiaia, che a metà degli anni Trenta ha coperto tutti i settori produttivi e professionali. Teniamo presente che, oltre ai provvedimenti qui ricordati, nascono anche l’Ente Opere Assistenziali del Partito Nazionale Fascista e il “Patronato nazionale di assistenza sociale”, organo legato al sindacato fascista, che si occupa di sensibilizzare nel mondo del lavoro la cultura previdenziale. Tutto questo per vocazione o per calcolo? Sicuramente lo scopo del Fascismo era quello di realizzare il massimo del consenso attorno a sé; era quindi naturale che cercasse di coinvolgere nello Stato quei settori che lo Stato liberale aveva escluso.
Vediamo più da vicino lo “stato sociale fascista”. Ad esempio, si è osservato che la previdenza sociale in Italia c’era già da prima della Marcia su Roma per cui il Fascismo non fece altro che ereditare istituzioni come Inps e Inail. E’ una lettura corretta?
Il Fascismo non realizza una netta cesura con il passato ma Mussolini tende a ereditare le strutture e anche gli uomini dello Stato liberale e dell’epoca giolittiana. Il problema è che per Giolitti la previdenza è un tentativo – non riuscito – di tenere lontana la conflittualità sindacale. Il Fascismo invece, a partire dal 1925, perfezionandola poi con la Carta del Lavoro, introduce la concertazione sindacale: il rappresentante del sindacato, quello del padronato e quello dello Stato affrontano le controversie di lavoro e poiché sono vietati lo sciopero e la serrata, occorre trovare una soluzione; se non si trova si ricorre alla Magistratura del Lavoro che, come rivelano gli studi più accreditati, dà generalmente ragione al sindacato. Occorre anche ricordare che il diritto del lavoro in Italia nasce negli anni Venti e diventa disciplina universitaria. Per inciso, questo sistema viene mantenuto nel dopoguerra senza modifiche sostanziali, finché in Italia è esistito uno Stato sociale. In merito a quel che si dice e si scrive, è vero che la Cassa nazionale di Previdenza nasce nel 1898 (ma non funziona, perché non obbliga i datori di lavoro) ed è vero che il sito dell’Inps annuncia con gioia che dal 1919 vi è l’assicurazione obbligatoria. Ma occorre fare una precisazione, che non mi sembra marginale. Il decreto istitutivo dell’assicurazione obbligatoria (decreto legge del 21 aprile 1919, n. 603) fu presentato alla Camera il 28 novembre 1918; fu emanato il 21 aprile 1919 ma rimase in attesa di conversione in legge dalla Camera; il 5 febbraio 1920 fu ripresentato dal ministro Ferraris e il 25 giugno successivo, fu presentato nuovamente dal ministro Labriola. Quando fu approvato? Bisognerà dire all’Inps che fu convertito solo nel 1923 con un decreto che conferiva al provvedimento valore di legge. Quindi solo dopo che il Fascismo aveva preso il potere. Però questo modo di fare la storia non mi convince. Perché se l’assicurazione è stata fatta prima del Fascismo è buona cosa e se è per caso è stata varata dopo, essa non è più buona o si deve tacere?
Ci furono altre iniziative che possono essere considerate a vantaggio dei lavoratori?
Nel 1941 venne introdotta la cassa integrazione guadagni (che il sito dell’Inps dichiara essere stata creata fra il 1968 e il 1969). Fu introdotta per ovviare alla situazione degli operai che non potevano più andare al lavoro perché la loro fabbrica era stata bombardata. Fu poi abolita alla fine della guerra, ma ripresa dopo il ’68. Ricordiamo anche le ferie pagate e l’invio di bambini nelle colonie estive e montane, nonché i treni popolari a supporto di chi andava in ferie. Furono provvedimenti adottati nella prima metà degli anni Trenta per permettere le ferie a chi non si era mai mosso di casa. Prima della Grande guerra in ferie ci andavano solo i ricchi. E tutto questo fu utile per lo sviluppo del turismo, disciplinato dall’Enit (Ente nazionale italiano per il Turismo)
Curiosamente sono rimasti fuori dalle polemiche due aspetti importanti della politica sociale di quegli anni: l’assistenza alla maternità e all’infanzia…
L’Onmi (Opera nazionale maternità e infanzia) viene costituita con la legge del 10 dicembre 1925 (Giolitti non c’entra in questo caso…), con lo scopo di integrare e coordinare le varie forme di assistenza alle madri bisognose e all’infanzia abbandonata. Poi, nel 1929, le provvidenze vengono precisate: interruzione obbligatoria del lavoro prima e dopo il parto, conservazione del posto di lavoro, riposi giornalieri per l’allattamento, sussidio di maternità; nel 1936, dopo il passaggio dell’intera materia all’Infps, l’assistenza di maternità viene allargata alle salariate fisse o temporanee di campagna, nonché ai mezzadri e ai coloni. Dopo una serie di allargamenti dei periodi di assenza dal lavoro per le gestanti, nel 1933 l’Onmi iniziò ad occuparsi anche dell’infanzia, dalla nascita fino al sesto anno di vita, sostituendo gli enti caritativi locali e privati con un servizio sociale pubblico e gratuito. Le funzioni dell’ente riguardarono l’assistenza igienico-sanitaria a gestanti, madri e bambini presso i consultori ostetrici e pediatrici dell’Opera, presso la Casa della Madre e del Bambino (istituita nel 1932 in ogni provincia), presso i Dispensari del Latte, gli Asili nido e i Refettori materni: gli assistiti passarono da 200 mila nel 1928 a oltre 2 milioni dieci anni più tardi. Vi era poi l’assistenza materiale: collocamento al lavoro di madri e di adolescenti (il divieto di lavoro per i minori era stato innalzato dai 10 anni previsti dalla legislazione giolittiana ai 14), assistenza legale, collocamento dei bambini per l’adozione. Inoltre, l’Onmi si occupava della propaganda igienica: le scuole di puericultura, i corsi popolari di igiene materna e infantile, nonché delle vaccinazioni. Ricordo la “battaglia” contro la tubercolosi che coinvolse le scuole materne ed elementari fino agli anni Sessanta e Settanta.
Altro aspetto poco trattato è quello dell’edilizia popolare. Cosa si fece in Italia a questo proposito durante il Fascismo?
Il regime predispose, durante la grande crisi, un piano di edilizia popolare per gli operai. Ne fu protagonista un sindacalista fascista, Francesco Grossi, dirigente dei lavoratori dell’industria, il quale decise di costruire nella periferia di Ferrara un villaggio per operai con una formula fortunata, legando cioè l’assegnazione e il riscatto della casa all’assicurazione sulla vita, attraverso l’Ina, l’Istituto nazionale assicurazioni. Questo modello fu poi utilizzato nel dopoguerra da Amintore Fanfani quando, da ministro del Lavoro, organizzò il “Piano case” popolari, utilizzando lo stesso sistema di Grossi: lo chiamò e si fece dare la documentazione in suo possesso: quella stessa che abbiamo conservato in Fondazione Spirito – De Felice. Fino a metà degli anni Trenta, erano i privati a costruire i villaggi operai ma ad un certo punto fu lo stato ad occuparsene. Ricordiamo, per inciso, che il regime bonifica territori e costruisce centri abitati (le Città di fondazione) fino al suo crepuscolo. Giuseppe Tassinari, ministro dell’Agricoltura, lancia “l’assalto al latifondo pugliese” nel 1938-40 e quindi quello contro il latifondo siciliano nel 1940-43. Nel feudo dei Nelson, nella ducea di Bronte, il 2 gennaio 1940 il regime decide l’esproprio e la costruzione di 8 borghi ai quali se ne aggiungono altri 6: uno di questi è il Borgo Caracciolo, a Maniace, così chiamato per ricordare l’ammiraglio Francesco Caracciolo, eroe della rivoluzione giacobina a Napoli del 1799 e poi impiccato da Orazio Nelson. Non appena arrivarono gli alleati in Sicilia, il borgo fu distrutto e la ducea tornò in mani britanniche.
Abbiamo accennato ai sindacati fascisti, un tema che lei ha studiato molto. Che influenza ebbero sulla condizione dei lavoratori durante il Fascismo?
Non molti anni fa si sosteneva che i sindacati fascisti non esistevano e al massimo si confondevano con le Corporazioni fasciste. Creati da Edmondo Rossoni nel 1923, furono invece l’ossatura della politica sociale e di massa del regime. Ci si poteva iscrivere al sindacato anche senza essere iscritti al Partito fascista. Il sindacato rappresentò un importante elemento sociale nel regime, tanto che Togliatti dedicò al sindacato fascista e al Dopolavoro buona parte del Corso sugli avversari tenuto nella prima metà del 1935 a Mosca alla scuola della Terza Internazionale. Nonostante molte difficoltà, anche all’interno del regime, il sindacato riuscì non soltanto a portare avanti una buona politica di difesa del salario e delle previdenze sociali, ma soprattutto riuscì a creare, con le quattro principali scuole sindacali, una classe di sindacalisti preparati e molto duri verso la controparte che dopo il 1943 divenne l’ossatura della Cgil e delle altre sigle sindacali del dopoguerra: dalla Cisl alla Uil fino alla Cisnal, il sindacato vicino al Movimento sociale italiano.
Da Storia in Rete, n. 150, aprile 2018