Bologna, giorni nostri: un anziano musicista fallito, Marzio, porta un CD all’amico di tutta la vita, Samuele, banchiere di successo: spera di blandirlo per ottenere un prestito, ma Samuele lo accompagna alla porta. Poco dopo, non accettando che il figlio sia stato sconfitto da un tumore, Samuele si suicida: consigliato dal fantasma del padre, Marzio rivive la travagliata storia del suo triangolo amicale-amoroso con Sandra e Samuele. Si torna indietro: a quando Samuele e Marzio, ancora ragazzetti, diventarono amici e giurarono di diventare dei cantanti celebri, anzi leggendari: formando così il duo “I Leggenda”; al primo, imbarazzante tentativo di Marzio di conquistare la bellissima Sandra, aspirante modella giunta a Bologna da Neuchatel; quindi al 1972, quando Marzio, schiavo del whiskey, delle pulsioni violente (aggredisce chiunque guardi la moglie), delle manie autocommiseratorie e della mancanza di talento (canta sempre la stessa canzone, magari dopo aver tenuto un sermone sui propri guai) e del rifiuto di vivere da adulto nel mondo degli adulti, comincia a distruggere il matrimonio con Sandra (sposata in quella “quattordicesima domenica del tempo ordinario” che dà il titolo sia al film, che alla canzone che lui e Samuele provano a candidare a Sanremo), il duo musicale con Samuele (che dal canto suo lavora) e la propria carriera da cantante, ritrovando Sandra (ridotta sul lastrico) soltanto al funerale di Samuele.
Marzio è interpretato da Gabriele Lavia (ai giorni nostri) e da Lodo Guenzi (anni ’70); Samuele da Massimo Lopez e Nick Russo; Sandra da Edwige Fenech e Camilla Ciraolo. Cesare Bocci è il padre di Marzio, Sydne Rome la madre di Sandra. La canzone è di Sergio Cammariere; co-produzione di Santo Versace. Sorprendente successo al botteghino, grazie anche a una campagna pubblicitaria basata sul ritorno al cinema della Fenech.
Prosegue la rinascita del grande regista bolognese (tornato a filmare la sua città natale dopo un periodo di disaffezione), cominciata con l’ottimo horror “Il Signor Diavolo” (2019) e il melò “Lei mi parla ancora” (2021); “La quattordicesima domenica del tempo ordinario” è un passo indietro rispetto a “Lei mi parla ancora” (dalle memorie, dedicate alla moglie Caterina, di Giuseppe Sgarbi: i genitori di Elisabetta e Vittorio), ma è una netta ripresa rispetto all’inguardabile “Dante” (2022).

Antonio Avati, fratello e socio del regista, lo ha definito il film più “pupesco” che abbiano girato: a ben vedere, “La quattordicesima domenica del tempo ordinario” (titolo dalla lunghezza wertmulleriana, con un riferimento al calendario liturgico che nell’odierno cinema ultralaicizzato soltanto Avati può permettersi – dice di essersi sposato in quel giorno, una domenica d’estate: avrà avuto un’esclusiva, di domenica non ci si sposa) è una summa di tanti elementi avatiani. Non proprio positivi: dalla morbosa ricorrenza di situazioni di disagio e fallimento (Marzio e Sandra, ombre che si aggirano senza una lira tra i portici bolognesi, ricordano Ugo, il pluri-protestato personaggio di Cavina in “Regalo di Natale” e “La rivincita di Natale”; ma nei romanzi “Il ragazzo in soffitta” e “L’archivio del Diavolo” c’è di peggio), alla cupezza lugubre (qui c’è un funerale, ma la prima mezz’ora di “Lei mi parla ancora” era un’autentica danza macabra), alla ripetitività: si tratta sempre delle stesse storie, i soliti drammetti del piccolo mondo antico fra Bologna e dintorni, e Marzio è l’ennesimo (spietato) autoritratto di Avati: ragazzo sfigato che riesce comunque a conquistare una bellona inarrivabile, musicista fallito, ridotto alla fame negli anni dello splendore economico, ostinato nell’inseguire il suo sogno d’artista nonostante nel frattempo abbia messo su casa con la consorte: se però Avati ce l’ha fatta, Marzio quasi si diverte nell’accumulare i fallimenti che può così, con un autocompiacimento piuttosto palese, raccontare agli sventurati avventori dei suoi concertini, prima di intonare (nemmeno bene) la solita lagna: che è poi la dichiarazione di quanto sia ricercata la sua autodistruzione, dato che quando ancora tutto sembra andar bene (si è sposato con la donna dei suoi sogni, e con Samuele ancora rincorre il sogno di Sanremo) scrive questa canzonaccia nella quale lamenta che “ovunque nella stanza ci son sogni non realizzati”, e soprattutto che “le cose belle son volate via”, lasciandolo “nel buio della vita”. Marzio Barreca è forse il personaggio più stupido di tutta la filmografia avatiana, al suo confronto Giacomo Vigetti (il seminarista rinnegato, interpretato da Stefano Dionisi nel meraviglioso “L’arcano incantatore”, che all’inizio del film vende l’anima al Maligno per poi provare a farsela restituire, come fosse un vestito della taglia sbagliata da riportare in negozio con lo scontrino) è un luminare: e quando gli ascoltatori cominciano a fischiarlo è molto difficile compatirlo, e quando l’ennesimo manager deluso gli dice che la gente va ai concerti “per divertirsi, non per ascoltare le tue sfighe” gli si farebbe seguito con una dotta citazione dagli Squallor (“ma dei tuoi turbamenti a noi che ce ne fotte”).
Eccellente il reparto “senior”: dall’incantevole Fenech alla maestosa prova di Lavia, che restituisce dignità a un personaggio patetico, disgraziato e sconfitto; ottime le brevi interpretazioni di Massimo Lopez (Samuele anziano che affronta con compostezza da samurai la morte del figlio e la propria; in linea con la consuetudine avatiana di far esordire in ruoli tragici attori comici – Diego Abatantuono, Massimo Boldi, Christian De Sica, Ezio Greggio, Renato Pozzetto) e Cesare Bocci (l’ironico e saggio spettro del padre di Marzio); tra i “junior”, molto bene gli esordienti (al cinema: alle spalle hanno la gavetta a teatro) Camilla Ciraolo e Nick Russo; assai meno il protagonista, Lodo Guenzi, ex cantante (era il leader degli Stato Sociale, la peggiore band italiana di sempre, ex aequo con i TheGiornalisti – anch’essi disciolti – e ai Pinguini Tattici Nucleari – cui auguriamo di seguire presto i colleghi) reinventatosi da attore, con più successo che bravura. Il suo Marzio è sempre attonito e parla sempre con la stessa cadenza strascicata, in qualsiasi situazione: quando scatena una rissa al cinema, quando fa il tenerone con la moglie, quando subisce le (più che legittime) scenate di lei, quando biascica sul palco, quando tedia Samuele e quando chiede rassicurazioni ai medici. Che il suo Marzio dal volto topesco, dal fisico esiguo, dalla camminata ciondolante e dalla parlata lagnosa, invecchiando si trasformi nel Marzio anziano di Lavia – volto nobile, sguardo e voce profondi, carisma e atteggiamento dignitoso pur dovendosi rassegnare a toccare il fondo – perlomeno offre speranza a noi quarantenni bruttaroli.

“La quattordicesima domenica del tempo ordinario”, elegia impreziosita da una qualche eleganza, è un bel film, se si ha pazienza con: il continuo avanti e indietro fra ambulanze e ospedali (persino il funerale è ambientato accanto a una clinica: l’Istituto Ortopedico Rizzoli, sulla collina di San Michele in Bosco), l’estetica del degrado tanto cara al Pupi nazionale (la scena del concerto benefico con il coro, il “Marzio show” in una terrificante televisione locale, Marzio che si prepara immaginando di suonare davanti a un pubblico osannante che ormai sa di poter solo sognare, ristoranti di cattivo gusto e pied-à-terre luridi), i soliti vistosissimi “blooper” (Marzio reclamizza ripetutamente “la Brasserie del Bosco”: poi arriva l’ambulanza a soccorrerlo, e l’insegna al neon “dal Pirata del Porto” campeggia in tutto il suo splendore) e le figurazioni speciali (le comparse “parlanti”, almeno per una battuta) a dir poco impresentabili, la tecnica approssimativa (il montaggio è un disastro: a salvare la baracca, la solita bella fotografia del fidatissimo Cesare Bastelli), e soprattutto con la canzone (l’unica, e persino bruttina) dei Leggenda: il lamento scritto da Cammariere, cantato maluccio da Guenzi, bene da Russo e benissimo da Lavia sulle cose belle che son volate, fuggite via (chissà perché se ne sono andate…) fa quasi rimpiangere “Tutto quello che un uomo” (tediosissimo trallallà con cui il baffuto cantautore e pianista crotonese trovò un effimero successo sanremese). Durante il suo show, Marzio vanta che con la loro hit i Leggenda superarono i Dik Dik al Cantagiro, e si piazzarono quarti al festival di Castrocaro: non osiamo immaginare cosa potessero essere le canzoni classificate quinta, sesta, settima…
Un bel film, se si ha pazienza: la pazienza necessaria a non correre al botteghino al terzo “le cose belle son fuggite via” per farsi rimborsare il biglietto, la pazienza di Samuele nel mandare a quel paese Marzio soltanto nel 2022, la pazienza del medico che spiega la situazione con le buone a Marzio che continua a domandare attonito “…ma è grave?” invece di scaraventarlo fuori dallo studio, la pazienza di Pupi Avati nel continuare a mettere in scena le solite storie di innamorati sfigati, sognatori perdenti, debitori sbaraccati nella solita provincia emiliana in cui tutti stanno bene tranne loro. Un bel dramma: speriamo però che il prossimo film – perché, a dispetto dei sedicenti “bene informati” che l’anno scorso davano Avati in disarmo: poi chissà perché, sono cominciate le riprese della XIV Domenica – sia ciò che il maestro sa fare meglio. Un nuovo capitolo nel racconto di quell’epopea che Avati stesso ha inventato, e che è soltanto sua: il Gotico Padano.