“Voglio essere chiara con le persone di questa regione che stanno pensando di intraprendere quel pericoloso viaggio verso il confine tra Stati Uniti e Messico: non venite. Non venite”. Il messaggio rivolto dalla vicepresidente statunitense Kamala Harris ai guatemaltechi “tentati” dall’intraprendere un viaggio verso gli Usa per entrare illegalmente nel Paese ha sorpreso molti, colpiti dall’inusitata durezza – e chiarezza – della presa di posizione della vice di Biden.
Nel suo discorso Kamala Harris ha inoltre sottolineato che “gli Stati Uniti continueranno a far rispettare le nostre leggi e a proteggere i nostri confini”, sottolineando come l’opposizione dell’amministrazione Biden all’immigrazione illegale dall’America Centrale sia frutto anche di una visione che punta ad “aiutare i guatemaltechi a trovare speranza in patria”. Insomma, una versione in salsa democrat del sovranista e sciovinista “aiutiamoli a casa loro”. Dichiarazioni solo in minima parte ammorbidite dal passaggio in cui la stessa Harris ha sottolineato come vi siano “strade per un’immigrazione legale e sono queste che vanno percorse”.
La sortita della vicepresidente Usa sul tema immigrazione ha immediatamente dato fiato alle opposte tifoserie, con destre e sovranisti pronti a mettere alla berlina il “bluff” di Biden in tema di immigrazione e le sinistre più o meno liberal intente a puntare l’attenzione sulle minori restrizioni – non su una politica delle porte aperte, si badi! – volute dalla nuova amministrazione statunitense in materia di immigrazione legale rispetto a quanto fatto da Donald Trump.
Come al solito le opposte tifoserie enfatizzano aspetti parziali di un tema complesso, impedendo – strumentalmente o meno, poco importa – di cogliere un elemento che accomuna da decenni l’operato delle amministrazioni di diverso colore che si sono avvicendate a Washington: la continuità. Caso esemplare quello del “muro” destinato a blindare il confine statunitense con il Messico. Per buona parte della stampa si tratta del “muro di Trump”, quasi che il magnate asceso alla Casa Bianca abbia – da buon sovranista, dunque razzista secondo l’assioma democrat – concepito questo progetto “separatista” tutto da solo. Peccato, però, che la realtà sia ben diversa: nato nel 1990 sotto la presidenza di Bush senior, la barriera tra Usa e Messico non solo ha attraversato indenne le presidenze democratiche di Clinton ed Obama, ma è stata continuamente ampliata e rafforzata.
Continuità che investe anche la presidenza Biden, quella che per le sinistre liberal di tutto l’Occidente avrebbe dovuto rappresentare il momento della “liberazione” dall’era dell’oscurantismo trumpiano. Ebbene, a dispetto delle promesse elettorali, il nuovo inquilino della Casa Bianca sembra non aver alcuna intenzione di smantellare il muro: nel mese di maggio sono stati autorizzati lavori di consolidamento lungo un tratto di 13 miglia, nel contempo sono proseguite le confische di terreni su cui realizzare la barriera da parte del dipartimento di Giustizia, l’ultima in ordine di tempo nella contea di Hidalgo in Texas.
In realtà, al di là di accenti più o meno esasperati, il controllo dell’immigrazione resta una priorità anche per una superpotenza come gli Usa che, per la sua peculiare storia, dal continuo flusso di immigrati ha tratto le energie necessarie ad alimentare un sistema “imperiale”. Sistema che nessuno a Washington ha intenzione di lasciar andare in malora. Con buona pace dei “vassalli” europei.