Si parla di tante cose ultimamente. L’opinione pubblica italiana è attanagliata da grandi dilemmi. Il sole picchia, l’estate sembra arrivata, e con i catastrofismi meteopatici riprendono vigore le grandi domande dell’italica dialettica. Dacca? Isis? Suvvia, parliamo di calcio, teniamoci a livelli ancora per noi raggiungibili. Sui social s’affaccia l’intellettuale spaccone, il piacione da tastiera che, come Pellé col suo pomatato ciuffo, ti tira fuori la pappardella impegnata e impregnata di politica. Non avremmo dovuto tifare, avremmo dovuto piangere, costernarci, indignarci, condividere foto e firmare appelli come per le vittime della Francia, del Belgio, degli Usa, ecc.
Cioè, secondo Capitan Tastiera, avremmo dovuto impegnarci in una guerra retorica contro il male assoluto, attaccarlo con i bei sentimenti, circondarlo con tanti gessetti colorati o qualche gif animata della piazza mediatica, e poi stenderli con una lunga marcia per la pace col fazzolettone scout e le bandiere di Libera e dell’Arcigay.
No, signori, niente affatto: questa volta la guerra l’avremmo dovuta combattere noi. E con quale spirito? Qui, sul campo della Storia, o si scende con determinazione ed idee chiare, o si fa la barbina figura del ragazzino di turno, che prima sfotte il portiere avversario, e poi si fa raccattare la palla sugli spalti.
No, fermiamoci al campo da calcio, lì dove non siamo vittime sacrificali come in quello della Storia. La partita con la Germania ce la siamo giocata, e nessuno ci avrebbe mai scommesso una delle tanto osannate vecchie lire che sarebbe finita così. Eravamo spacciati all’inizio, e stavamo per strappare una vittoria clamorosa, avendo una squadra non clamorosa ma volonterosa. I nostri connazionali di Dacca avrebbero voluto un decimo delle possibilità che abbiamo avuto a Bordeaux, e la metà di loro si sarebbe salvata. Non ne hanno avuto nessuna.
Perché nella Storia non ci puoi stare con lo stile scanzonato di un cinguettante pierre senza cravatta – chiaro riferimento fallico la cravatta, non lo sapete? —; non ci puoi vivere stendendo tappeti colorati dalla finestra istituzionale di qualche attico di lusso, e battere la polvere dell’ingiustizia con una borsa Vuitton comprata in via Monte Napoleone, che di generalesco a stento ha il nome; non ne afferri i giorni venturi riciclando indignazione, già di conserva nei vecchi comunicati stampa. E poi, non è proprio noioso questo stare nella Storia? Si capisce la conquista del proprio spazio, ma lasciarsi inchiodare da un secolo nello “stesso modo, nello stesso luogo, nello stesso lago, nello stesso universo”, non si è fatto troppo pesante? Sventoliamo sul ponte del destino la bandiera bianca, e attendiamo con serena pazienza il prossimo mondiale e la prossima carneficina.
Nel calcio abbiamo ancora una parola da dire. Nella Storia non più. Forse non ne abbiamo mai avuta una. Oh sì, a spiegarcela abbiamo avuto Giambattista Vico, circa trecento anni prima che gli americani avessero Huntington (e con quale differenza!), ma Vico se lo leggono in America, e noi qui ritagliamo spazio all’ultimo scopiazzatore del culturame che conta. No, siamo seri, indignati compatrioti. Non facciamo mosse false, tacciamo prima che il nemico ci senta e ci prenda sul serio. Tifiamo semmai, prima che il mal italico, questa vigliacca sifilide del coraggio e della dignità, ci tolga anche il piacere della nazionale. Si vedono già le prime avvisaglie: tutti contro Conte, Zaza e i quattro italiani che sono rimasti a giocare nella Juve. Nelle altre sono scomparse perfino le indigene dirigenze. Senza che italiano spronasse ad eroici furori.
Godiamoci gli ultimi assalti della coorte calcistica. Il palcoscenico sportivo ancora ci riserva un posto. La Storia ci ha già messi in panchina da un pezzo.