Durante una mia lontana esperienza didattica, accompagnai una terza classe di una scuola media tiburtina, in visita alla Scuola allievi sottufficiali di Viterbo. Fummo accolti dal Comandante, una figura dall’imponenza nobile ed affascinante, non certo prepotente e tanto meno insolente, il colonnello granatiere Gianfranco Chiti. E’ rimasta ben presente quella fuggevole esperienza, tanto da portarmi a seguire le successive scelte di Chiti con l’ordinazione e da leggere della sua scomparsa.

Ora del generale (1921-1994), divenuto appunto nel 1982 frate sacerdote cappuccino, sono presentate, in una edizione affrettata (basti pensare al frontespizio con un madornale errore tipografico e le note ripetute) le “lettere dalla prigionia”. L’impressione o meglio il giudizio d’insieme è ottimo e coinvolgente per la documentazione relativa a Chiti mentre è negativa e infastidita per la prefazione dell’Ordinario militare e per i commenti e per gli interventi dell’autore /curatore, l’altro padre cappuccino Rinaldo Cordovani.
Viene sottovalutato, fino allo svilimento, la tensione morale e la fede autentica, reale e non enfatica di Chiti, presentato in alcuni passaggi come un doppiogiochista. Mons. Santo Marcianò, pur consacrato arcivescovo da papa Benedetto XVI, in puro stile bergogliano, ritiene che “come molti giovani, molti militari [!!], persino alcuni santi del tempo – pensiamo solo a san Giovanni XXIII [e perché non san Giovanni Paolo II], l’amore della Patria fu per lui significativo, decisivo”. Riesumando la fallimentare esperienza democristiana, il presule calabrese strumentalizza il “messaggio” e l’esempio di Chiti, lo assume a campione “per stimolare una rinnovata responsabilità civile e politica dei cattolici”.
Lontani perciò dal prefatore, dalla responsabile dell’introduzione e dallo stesso Cordovani, occorre riprendere le parole di Chiti sulla scorta di S. Luca “ex ore tuo iudico”. Dopo essere stato allievo ufficiale presso l’Accademia di Modena, nel 1942 è impegnato dapprima in Croazia per partire nell’aprile per il fronte russo, da dove rientra, “uno degli ultimi”, nel maggio 1943. Dopo l’8 settembre aderisce alla Repubblica Sociale e il 2 febbraio 1945, in una lettera impegnativa ed esplicita, dichiara che “con forza indomita e con tenacia ferma, lavoreremo, ricostruiremo, combatteremo, se necessario moriremo, per i Caduti nostri, per l’Italia Fascista di Mussolini”.
Dopo la resa al Corpo Volontari della libertà il 5 maggio 1945 e aver trascorso tre mesi di carcere in isolamento ed essere stato internato nei campi di concentramento angoloamericano di Tombolo, Coltano e Laterina come sorvegliato speciale, è liberato il 20 dicembre. Una quarantina di giorni più prima, aveva confidato al suo confessore “Tu non hai l’idea certamente di quanto io ti pensi. Tu sei continuamente qui con me e con i nostri Caduti, che certamente sono qui, su questo campo, ove ancora vi sono riuniti gli ultimi veri Italiani di Mussolini”. Molti anni più tardi (Natale 1971) conserva e non intacca assolutamente la linea ideale sempre professata, ribadendo lo “sconfinato amore per la nostra Patria”. Ormai sacerdote, l’11 settembre 1993, celebrando la giornata del “Perdono e della Riconciliazione” indetta dalla Chiesa del pontefice polacco, lancia un appello “Via questo muro tremendo, per la pacificazione concreta fra gli italiani”, nella consapevolezza che “Tutti da una parte e dall’altra servirono la Patria con dignità ed onore”. Nella stessa omelia, in una sorta di testamento, da Granatiere e da italiano, sostiene di avere sempre una “Patria, abbiamo un patrimonio sacro da difendere, che è la nostra civiltà latina e cristiana e vogliamo marciare sotto una sola Bandiera, all’ombra della quale abbiamo combattuto e sono saliti nel cielo della gloria i nostri Caduti: quella Bandiera, quella sola, si chiama Italia”.
Del Granatiere di Sardegna, del sacerdote è in corso il processo di beatificazione.
RINALDO CORDOVANI, Gianfranco Chiti. Lettere dalla prigionia, Milano, Edizioni Ares, pp. 248. €16,00.