Per il Messico il turismo rappresenta il sette per cento del PIL. Un ottimo affare e tanti, tanti soldi. Persino durante la pandemia, grazie ad una politica “aperturista”, gli stranieri sono continuati ad arrivare (e a spendere) e la repubblica centroamericana è divenuta la settima meta mondiale del turismo. Una crescita formidabile che ha il suo cuore nello Stato federale di Quintana Roo e più precisamente nella Riviera Maya, 130 chilometri di spiagge stesi tra Cancun, Playa del Carmen e Tulum, punteggiati da 120.0000 camere d’albergo che solo l’anno scorso hanno ospitato ben 13 milioni di turisti. Una risorsa preziosa per un Paese ancora afflitto da gravi problemi strutturali, inquinato da una corruzione diffusa e massacrato da una violenza efferata quanto rapace.
Ed è proprio la violenza — principalmente frutto velenoso del narcotraffico dei cartelli — a minacciare la Riviera. Nell’ultimo anno il tasso d’omicidi nella regione è arrivato a 46 casi su centomila abitanti rispetto ad una non invidiabile media nazionale del 27. Una mattanza che fatalmente ha coinvolto anche turisti d’ogni nazionalità — canadesi, statunitensi, francesi, indiani, giapponesi —, per lo più (ma non sempre…) vittime casuali di regolamenti di conti tra le diverse gang o spettatori incolpevoli di macabri ritrovamenti tra gli ombrelloni e sulle strade. Alla base il traffico di stupefacenti. «Nove omicidi su dieci sono legati alla vendita di droghe», spiega il procuratore regionale, Oscar Montes de Oca. «Il turismo ha sviluppato un mercato enorme che ha scatenato una guerra tra i terminali locali delle grandi organizzazioni criminali, tra tutti il cartello di Jalisco e quello di Sinaloa. I più pericolosi».
Insomma tanta domanda e tantissima offerta. Per rendersene conto basta una passeggiata nel centro di Cancun o Playa del Carmen. Ad ogni angolo vi è qualcuno che vende la “roba”: marijuana, cocaina, anfetamine d’ogni tipo e ad ogni prezzo. Un mercato a cielo aperto a lungo tollerato o, quantomeno, poco ostacolato dalle forze dell’ordine.
Sino ad oggi. L’escalation criminale ha allarmato non poco l’industria del turismo e, omicidio dopo omicidio, le pressioni sul governo regionale e su quello centrale si sono fatte sempre più forti sinché quest’estate lo Stato ha deciso d’intervenire «prima che succeda qualcosa d’irreparabile». Ai 5000 agenti della polizia regionale (considerati sensibili alle lusinghe del denaro…) sono stati aumentati di botto gli stipendi (da 7000 pesos a 18.000) e forniti nuovi equipaggiamenti, nelle zone considerate sensibili sono state installate 2200 telecamere, spiagge e centri turistici sono pattugliati 24 ore su 24 da 1500 militi della Guardia nazionale e da un battaglione di fanteria di Marina in assetto da guerra. Risultato provvisorio? Gli arresti sono triplicati e la curva criminale sembra essersi abbassata.
Ma i problemi, per ammissione delle stesse autorità, restano aperti. Lo straordinario quanto caotico sviluppo urbano della regione (solo Tulum cresce annualmente del 14 per cento e ha triplicato la popolazione in un decennio) facilita il riciclaggio di denaro sporco e alimenta la corruzione: in passato due governatori del Quintana Roo, Mario Villanueva e Roberto Borge, sono finiti in galera rispettivamente per traffico di droga e truffa aggravata….
L’attuale governatrice Maria Lezama, molto vicina al presidente federale Lòpez Obrador, assicura che inasprirà la strategia securitaria e la lotta contro il malcostume e il clientelismo. Una mossa necessaria, anzi obbligata se si vuol preservare l’industria turistica e garantire nuovi investimenti nel settore. In primis l’apertura del nuovo aeroporto internazionale di Tulum — quello di Cancun è ormai intasato — e la realizzazione del “Tren Maja”, la nuova ferrovia ad alta velocità lunga 1500 chilometri che unirà entro il 2023 le principali attrazioni turistiche del Messico meridionale. Opere importanti e molto costose che la ferocia dei narcos rischia di trasformare in desolate “cattedrali nel deserto”.