Un essere diabolico (invisibile allo spettatore per quasi tutto il film) vaga tra le montagne svedesi e raggiunge la tenuta di Maria e Ingvar, allevatori e coltivatori che, assieme a un cane, un gatto e un gregge di pecore, vivono quasi isolati dal resto del mondo. Si introduce nel loro ovile, dove concepisce una creatura ibrida: Maria e Ingvar, afflitti dal lutto per la loro bambina, le danno il nome della piccola defunta (Ada) e la allevano con un affetto tanto forte da vincere le perplessità di Pétur (fratello di Ingvar, ex fidanzato di Maria e cantante rock fallito). Nel frattempo, però, Maria si è resa responsabile d’una colpa da lavare col sangue.
Opera prima del regista islandese Valdimar Johannsson, che ha scritto il film assieme al poeta Sjon (co-autore dei testi di Bjork, rocker isolana di fama internazionale). Horror di produzione europea, dal più che discreto successo di pubblico internazionale (fatto uscire negli USA la stessa settimana dell’ultimo 007, si è comunque piazzato settimo in classifica) e soprattutto di critica; meno entusiastiche le recensioni nostrane, ma è noto quanto poco valga il parere di critici italiani e altri avanzi del DAMS (di quelli che idolatrano l’ungherese Bela Tarr, “etologo” e produttore esecutivo di “Lamb”).
Maria è interpretata da Noomi Rapace, attrice svedese diventata una star coi i film della trilogia “Millennium” (tratti dai romanzi, che inaugurarono la moda dei gialli scandinavi, del grottesco giornalista Stieg Larsson), poi nel cast di film poco riusciti di Ridley Scott e Brian De Palma; qui, al suo quarto film da produttrice. Candidato dall’Islanda per l’Oscar al miglior film straniero, “Lamb” è arrivato alla selezione finale, ma non alla cinquina delle nomination; ha avuto comunque una proiezione speciale al Film Festival di Londra, ed è stato scelto per la sezione “Un Certain Regard” a Cannes (dove il magnifico border collie Panda è assurto agli onori della Dog Palm), ricevendo il premio per l’originalità.
Che è il pregio più evidente di “Lamb”; oltre all’atmosfera, alla prestazione del ridottissimo cast (umano e non), all’intensità d’una vicenda lentissima ma avvincente, tutt’altro che tediosa. Rimasto quasi invisibile in Italia, “Lamb” è un film importante, perché segna una svolta positiva nella recente, interessantissima, produzione horror “intellettuale”: se altri film europei (lo spagnolo “Possession – L’appartamento del Diavolo”, il francese “La casa in fondo al lago”) non offrono grandi motivi d’entusiasmo, se altri ancora (il tedesco “Hansel & Gretel”) potrebbero essere ottimi se non si perdessero in qualche chiacchiera di troppo, se i film di Ari Aster scontano le pessime premesse filosofiche del regista (ma, a differenza di Lars Von Trier – altro regista che si compiace del suo malessere e di trasmetterlo agli altri – Aster fa film validi come “Hereditary” e “Midsommar”, non intellettualismi da asilo come l’ultra-idiota “Antichrist” e il vacuo “Melancholia”), se Rob Zombie ha idee intelligenti e un gran studio dell’ambito stregonesco ma tende a perdersi a metà film, se il messicano Guillermo Del Toro, a parte un bell’omaggio alla Hammer (“Crimson Peak”) e una fiaba carina ma stucchevole (“La forma dell’acqua”), non esce mai dalla pochezza delle convenzioni hollywoodiane; d’altro canto, vi sono motivi di ottimismo – dalla validissima saga “The Conjuring – L’evocazione” (con la quale James Wan si fa perdonare le schifezze di “The Saw”) ai momenti migliori dei citati Aster, Zombie, sino al rinnovato filone del “folk horror” europeo (acclamatissimo, al Sundance di New York, il macedone “You Won’t Be Alone”, con protagonista proprio la Rapace assieme ad Alice Englert, figlia della neo-Oscar Jane Campion), dei cui momenti più felici e intelligenti “Lamb” è più che degno.
Anche il tema colloca con precisione “Lamb” nel cinema horror contemporaneo. Curiosamente, mentre il mondo occidentale è attraversato da varie offensive sociali e culturali, i film dell’orrore affrontano molto frequentemente uno dei temi di questi attacchi: la genitorialità; mentre il pensiero unico e il politicamente corretto deprecano che le donne occidentali (specialmente se benestanti) diventino madri (il capitale ha urgenza di soppiantare la classe media europea con manodopera poco qualificata e perciò sottopagata, importata da Africa e Sud America), massacrandole con slogan narcisisti (“si deve mettere al primo posto se stessi, bastare a se stessi”), misandrici (“una donna non ha bisogno di un uomo”) o molto più semplicemente inumani (“una donna non ha bisogno di avere figli”), i nuovi film dell’orrore prediligono il tema, già caro ai classici del terrore: “Rosemary’s Baby”, “L’esorcista”, “Il presagio” e “Alien” su tutti, sino a “Possession”, sontuosa follia di Andrzej Zulawski con Isabelle Adjani (premiata con Cesar e Palma d’Oro, ma traumatizzata dalle riprese) che partorisce una creatura tentacolare nella metropolitana di Berlino e ne fa il suo amante. Più recentemente, il giapponese “Dark Water” (con annesso remake americano mediocre) ha raccontato la smania, da parte d’una piccola fantasma, di trovarsi una mamma; più avanti, in “La madre” (prodotto da Del Toro) Jessica Chastain è stata una rockettara immatura passata dalla rigorosa osservanza dei metodi contraccettivi e al fastidio per le orfanelle del compagno, alla protezione materna delle due bambine, assillate da uno spirito ossessionato dal desiderio di accudire delle figlie (specularmente a “Dark Water”).

Dopo pletore di film ispirati a “Il giro di vite” di Henry James, super-pietra miliare della letteratura da incubo (“The Others” e “The Orphanage” i due maggior successi), la “new wave” horror ha ribadito il concetto dei “bambini perversi” con “The Lodge” (un vedovo a dir poco incauto lascia i figli in una baita isolata dalla neve assieme alla nuova fidanzata, già scampata a una setta di fanatici e oggetto dell’astio dei figliastri), dal titolo curiosamente simile all’irlandese “The Lodgers” (2017: due anni prima di “The Lodge”, ma due anni dopo “Crimson Peak”, del quale è quasi un remake), in cui due fratelli gemelli si chiedono se perpetuare la tradizione famigliare di squallore e decadenza.
La famiglia nel cinema di oggi sembra quella dei film di Ari Aster: il nido d’ogni male; ma così non sembra pensarla Pedro Almodovar (non proprio un reazionario), che con “Madres Paralelas” ha firmato un elegante (a tratti) melodramma la cui protagonista ha due ragioni di vita: la figlia neonata, e la ricostruzione del passato famigliare. “Lamb” può quindi essere visto come la versione horror del melò di Almodovar: una protagonista femminile forte, due madri che si contendono una figlia, figure maschili relegate sullo sfondo a subire ciò che fanno gli altri (Ingvar sembra George, ossia Kevin Costner in “Uno di noi”, western ambientato negli anni ’60 in cui Diane Lane fa la guerra a una famiglia di maschi ebeti comandati da una madre feroce) e, al centro, la creatura.
Ha forse ragione Maurizio Porro, quando sul Corriere della Sera scrive che la premessa grottesca del film le toglie pathos. O forse no: perché la promessa dei “teaser” postati su Facebook (“si impadronirà del vostro cuore”, dicono della piccola ibrida Ada) è mantenuta, ed è un film di emozioni forti: dallo sgomento per la capra che bela sotto la finestra in cui riconosce la figlia (un’immagine degna di “Angoscia”, il terribile dipinto di A.F. Schenck), alla tenerezza che la piccola riesce a suscitare addirittura nel meschino Pétur. Film dell’orrore che lascia il segno: senza spaventi (la stagione dei banalissimi “jump scare” o, peggio ancora, del “torture porn”, sembra finalmente trascorsa), senza versamenti di sangue (diversamente dalle cretinissime macellerie cervellotiche del greco Yorgos Lanthimos: uno che il suo solo film decente, “La favorita”, lo ha diretto su commissione), ma che sprofonda lo spettatore in una situazione perturbante, anche oltre il tremendo finale.
Comincia citando uno dei dipinti più belli di sempre, l’”Agnello di Dio” di Francisco de Zurbaràn; ma, nonostante l’uscita nei cinema italiani ad aprile, non c’è nulla di pasquale in questo incubo profondissimo: Maria uccide una povera madre, e il dono giunto dall’Inferno vi deve ritornare, previo tributo di sangue.