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L’appello dell’Armenia. Gli azeri vogliono cancellare la memoria di un popolo

di Gian Micalessin
23 Novembre 2020
in Home, Mondi
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Alte lingue di fuoco illuminano la notte, un crepitio sinistro le accompagna divorando legno, pietre e mattoni, coprendo brusio e urla degli abitanti in fuga. Poi lo schianto di travi e cemento, il fragore dei crolli, il diluvio di vampa e braci che inghiotte tetti e mura. Una dopo l’altra bruciano e cadono le case degli armeni di Kalbajar. Loro voltano la testa, chiudono gli occhi, abbandonano in silenzio quell’inferno di fuoco e dolore.

Per 26 anni il Nagorno Karabakh, l’enclave armena grande come il Molise è stato il loro sogno, la loro patria. Lo chiamavano Artsakh, come la regione su cui nel IV secolo prese forma il primo regno cristiano della storia. Il suo simbolo era Shusha, la città sacra abbandonata in massa dopo i massacri nel marzo 1920 quando le truppe azere uccisero più di cinquecento armeni in pochi giorni. Gli armeni ci tornarono nel 1994, dopo tre anni di guerra e sangue durante i quali strapparono all’Azerbajan Shusha e il Nagorno Karabakh. Ora dopo i quaranta giorni di guerra iniziati lo scorso 28 settembre e segnati dalla lotta impari con i missili azeri, i droni turchi e i mercenari jihadisti, quelle terre sono diventate il loro passato. Un passato da abbandonare.

Da giorni donne, vecchi e bimbi accalcati su auto, pullman e camion stracolmi di coperte, pentole, piatti e suppellettili lasciano i luoghi perduti. Qualcuno porta legato al tetto dell’auto o adagiato sui cassoni dei camion il feretro del padre, della madre o del figlio. Bare sporche di terra. Bare strappate alle tombe dal cimitero. Hanno perduto la guerra non vogliono perdere anche i loro morti. Le case, invece, meglio bruciarle che regalarle al nemico. Succede a Kalbajar si ripeterà nei distretti di Agdam e Lachin destinati in base al cessate il fuoco a venir abbandonati entro il primo dicembre.

Ma in quelle terre non restano solo case bruciate, rimpianti e ricordi. Abbandonare l’Artsakh significa lasciare agli azeri luoghi sacri e simbolici come Tigranakert, Dadivank o Amaras. I resti della città fortezza di Tigranakert, nel distretto di Agdam, risalgono al I secolo avanti Cristo. Le rovine delle sue possenti mura costruite a difesa dei confini orientali testimoniano la millenaria presenza del regno armeno. Così come la basilica del V secolo riemersa dalla necropoli ci racconta l’originaria presenza cristiana. Amaras e il suo santuario nel distretto di Martuni sono i luoghi dove i monaci del V secolo iniziarono a usare e diffondere l’alfabeto armeno inventato da San Mesrob Mashtots.

Il monastero di Dadivank costruito su una collina e affacciato sull’inferno di fiamme e dolore di Kalbajar è un’altra reliquia cristiana. Le sue mura e le sue cupole risalgono al IX secolo, ma sono state costruite intorno a una cappella utilizzata nel I secolo dai padri della Cristianità arrivati dalla Siria. E nel luglio 2007 da sotto il suo altare è riemersa la tomba di San Dad, discepolo di Giuda Taddeo, uno dei dodici apostoli di Cristo.

Ma questi pezzi di storia e civiltà cristiana sono a rischio. «Il revisionismo storico dell’Azerbajan è purtroppo una pratica metodica e consolidata, in Azerbajan non esiste più una sola vestigia armena – spiega l’architetto Gayane Casnati del Centro studi e documentazione per la cultura armena – A Djulfa, nella regione del Nakhichevan l’esercito di Baku ha distrutto tra il 2005 e il 2006 più di 3000 lapidi e iscrizioni alcune delle quali risalenti al VI secolo che erano parte di un antico cimitero armeno. Sono sciiti, ma applicano gli stessi metodi dell’Isis. Durante la guerra hanno sgozzato e decapitato i prigionieri mettendo in rete i filmati. Nei territori caduti sotto il controllo tenteranno di replicare quel che è successo in Iraq e Siria ovvero far piazza pulita di monumenti e santuari per cancellare ogni testimonianza della presenza armena e cristiana».

E i duemila soldati russi incaricati, secondo gli accordi per il cessate il fuoco, di presidiare le linee di demarcazione potrebbero non bastare a garantire l’incolumità di quelle vestigia. Eppure in tutto questo dall’Europa cristiana non arriva un solo segno di solidarietà con le popolazioni armene. L’Italia, che in Kosovo garantì la difesa dei santuari serbi, non sembra muovere un dito. Manlio Di Stefano, sottosegretario agli Esteri a Cinque Stelle esibendo un’ingenuità (speriamo per lui) strumentale, giustifica l’inazione aggrappandosi alle presunte garanzie di multiconfessionalità offertegli, per sua ammissione, dall’ambasciatore di Baku.

Ma la vergogna della piccola Italia giallo-rossa è poca cosa rispetto all’assenza di Bruxelles. «L’Italia pronta a inaugurare il Tap dovrebbe ricordarsi che accanto alle sue forniture energetiche operano ora le milizie jihadiste», ricorda l’ex ambasciatore armeno in Italia Sargis Ghazaryan, che non risparmia parole durissime neppure a un’Europa accusata di aver replicato «la vergogna di Monaco 38 e dei Sudeti». «Il Nagorno Karabakh è parte dell’Europa, ma il presidente azero Ilham Aliyev, grazie alle armi dell’amico Erdogan e all’impiego di milizie jihadiste, ne ha cambiato la mappa. La Ue, lasciandoglielo fare, ha accettato l’idea che l’aggressione militare torni a essere lo strumento per la risoluzione dei conflitti territoriali. Per rimediare a questi fallimenti Bruxelles deve predisporre un massiccio intervento umanitario. E impedire che la distruzione dei nostri monumenti diventi lo strumento per la reintroduzione del negazionismo storico».

Tags: ArmeniaAzerbaijancristiani d'orienteguerreNagorno KarabakhRussia
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