Con un decreto firmato oggi il presidente karabakho Samvel Sergeyi Shahramanyan ha disposto che “tutti gli organi statali e le organizzazioni che dipendono da loro devono essere sciolti entro il 1° gennaio 2024 e la repubblica del Nagorno-Karabakh (Artsakh) cessa di esistere”.
La decisione di Shahramanyan non fa altro che certificare un dato di fatto: la repubblica armena del Nagorno Karabakh, indipendente de facto dal 1993, non sopravvive all’offensiva militare lanciata dall’Azerbaigian la scorsa settimana. Una “operazione antiterrorismo” – così è stata definita da Baku – che segue e completa la guerra dei 44 giorni con cui, nell’autunno del 2020, gli azeri hanno riconquistato buona parte dell’Artsakh.
Del resto che l’obiettivo del governo azero – sostenuto da Turchia e Israele – fosse la completa riconquista del Nagorno Karabakh non era certo un mistero: a Baku, semplicemente, si è atteso che maturassero le condizioni necessarie a livello internazionale per poter agire indisturbati. Lo squilibrio militare a favore dell’Azerbaigian non poteva lasciare dubbi sull’esito finale del confronto.
La guerra in Ucraina, che ha costretto Mosca a distogliere l’attenzione dal Caucaso meridionale e a mantenere un difficile equilibrio nei rapporti con l’Azerbaigian; il tentativo del premier armeno Pashinyan di allontanarsi dalla tradizionale alleanza con la Russia per cercare appoggi in occidente (con magri risultati) e la decisione di abbandonare il Nagorno Karabakh nella speranza (probabilmente vana) di una pace con Baku; la crescente dipendenza dei Paesi europei dalle forniture energetiche azere nel tentativo (fallito) di sostituire quelle russe, tutti questi elementi – ed altri relativi ad un complesso gioco di interessi nella regione – hanno offerto al presidente azero Aliyev l’opportunità di chiudere la partita.
L’assenza di reazioni da parte della comunità internazionale – a parte i consueti, inutili, richiami alla ricerca di una soluzione diplomatica della crisi – conferma che i tempi erano maturi per “risolvere” un conflitto che affonda le sue radici nella dissoluzione dell’Unione Sovietica e, prima ancora, nella criminale politica delle nazionalità applicata da Stalin.
In questa partita gli armeni partivano certamente svantaggiati – non ci sono gas e petrolio con cui comprare alleanze (e non solo …) – ma è anche vero che non pochi errori sono stati compiuti quando sarebbe stata possibile una trattativa da posizioni di relativa forza. Ad Aliyev va riconosciuto di aver perseguito con costanza e determinazione un obiettivo, sfruttando al meglio possibilità e circostanze.
Il Nagorno Karabakh perde non solo l’indipendenza conquistata sul campo di battaglia agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, ma probabilmente anche la storica presenza della comunità armena: ad oggi sono già 65mila – su una popolazione di 120mila abitanti – i cittadini dell’Artsakh che sono arrivati in veste di esuli in Armenia.
Nel decreto che sancisce la fine della Repubblica di Artsakh è previsto che abitanti e rifugiati potranno “prendere individualmente la decisione di rimanere o tornare nel Nagorno Karabakh”, tuttavia non sembrano esistere i presupposti perché questa soluzione – salvo scelte individuali – possa consentire la continuità della presenza della comunità armena nella regione.
Nella generale indifferenza muore la Repubblica di Artsakh. Ennesima conferma che i grandi principi di cui si ammantano retoricamente le discussioni sulla politica e il diritto internazionale altro non sono, in realtà, che esili veli utilizzati per coprire scelte strategiche ed interessi di grandi e medie potenze.