L’esito dei quesiti referendari e del turno amministrativo ci consegna uno spettacolo desolante, un epilogo tristissimo e ampiamente prevedibile. Si conferma la disaffezione del popolo italiano nei confronti dell’esercizio libero, e doveroso, del diritto di voto. Un’affluenza imbarazzante, uno spreco di denaro pubblico senza attenuanti, un campanello d’allarme da non ignorare. La democrazia appare un orpello superato, un fastidio, un involucro vuoto senza spirito né carne. Un popolo che ignora e rinuncia ai propri diritti diviene facile preda di fanatismi, intolleranze e si condanna all’estinzione o, peggio, all’irrilevanza.
Non si tratta, si badi bene, di un problema circoscritto e limitato alla sfiducia nei confronti della politica. La noia, il fatalismo, la rinuncia sembrano avere radici più profonde e difficili da sradicare, in grado di attecchire malignamente nei più disparati ambiti della società. Qualcuno parla di amarezza e delusione, sarebbe già qualcosa. La portata servita è, invece, insipida, priva di gusto, semplicemente edibile, niente di più. Si sopravvive per inerzia, si procede senza meta e fine. Perché? Come si è giunti a questo costernante epilogo? Siamo al punto di non ritorno o potrebbe iniziare a piovere?
Il referendum non ha raggiunto il quorum e non è la prima volta che accade. I quesiti toccavano temi certamente tecnici, ma pervasivi dell’intera esistenza di ognuno di noi. L’occasione era ghiotta, cioè quella di contribuire a ridisegnare una società maggiormente garantista e giusta, livellando storture e disequilibri del tutto illiberali. L’invito all’astensione, al disimpegno, al menefreghismo irresponsabile ha avuto vita facile contro i timidi, e poco convinti, “accoratissimi” appelli alle urne. Nessuno ha risposto e le paludi dell’immobilismo hanno fagocitato il silenzio degli indecisi, dilaniati interiormente tra la tintarella al mare o l’escursione in montagna.
Il referendum va ripensato drasticamente, bisogna ammetterlo, per evitare che simili vergognose farse possano ripetersi nel prossimo futuro. È necessario scegliere con cura i temi da sottoporre ai cittadini, alzare considerevolmente il numero delle firme da raccogliere e abolire il quorum. Non è accettabile che la fuga dalle proprie responsabilità venga premiata, incidendo, di fatto, molto di più rispetto a un voto negativo o a una scheda bianca. La sfida deve essere, sempre e comunque, tra posizioni e idee, tra valori e visioni della realtà.
Stiamo attraversando un’epoca di sterilità economica, produttiva e valoriale, privati del lavoro, incapaci di un ricambio generazionale, protesi verso licenze e capricci, ma restii ad abbracciare libertà e doveri. Ci si appella quotidianamente alla complessità, intessuta di legami e connessioni tra i molteplici rami del vivere, ma spesso lo si fa in modo fazioso e inconcludente.
L’urgenza odierna richiede di smetterla di concentrarsi sui sintomi, di curare le singole ferite, concentrandosi, invece, sulle cause, sull’eziologia dei mali. Servono fantasia, immaginazione, impegno e tanta meritocrazia. Creare anticorpi nuovi per alimentare sistemi immunitari robusti, combattendo il lassismo morale e il relativismo etico. Investire sulla scuola, sulla formazione, sulla cultura. Tagliare le tasse e rilanciare il privato. Ricostruire le scuole di politica, premiando eccellenza e competenza. L’astensionismo è il frutto indigesto di un popolo che ha smesso di sperare, di credere e di sognare in un futuro differente. Reso dimentico della propria appartenenza, spogliato di ogni dignità, incapace di amor patrio. Abbiamo infilato, purtroppo, il facile corridoio del rimpianto, della lamentela a prescindere, della rassegnazione nichilista, vicoli ciechi che si tuffano in un lago di tenebra.