Nel dicembre 2010 è scoppiata in Tunisia la rivolta contro il regime di Ben Ali che ha sancito l’inizio delle cosiddette “rivoluzioni arabe”. La fiamma della protesta si è propagata velocemente lungo i Paesi del Maghreb e del Medioriente mettendo in discussione il potere di consolidate autocrazie che hanno retto per decenni i destini di quella vasta area del mondo. Per quanto l’argomento necessiti indubbiamente di un’analisi più approfondita, in questa sede possiamo limitarci a rilevare che le cause del malcontento che ha portato centinaia di migliaia di persone a riempire le piazze delle maggiori città del Vicino oriente e della costa mediterranea dell’Africa sono da ascriversi principalmente ad un progressivo aumento del prezzo dei generi alimentari che ha messo via via in ginocchio le già magre finanze di una popolazione che spesso vive presso la soglia della povertà e che è stata storicamente educata dai regimi politici locali a covare un forte risentimento anti-occidentale ed anti-israeliano al fine di nascondere le inefficienze, le mancanze e la corruzione che caratterizzano da sempre i governi impersonati dal “ra’is” mediorientale di turno.
Approfittando del diffuso malcontento politico ed economico e delle situazioni sociali più degradate, il fondamentalismo islamico di natura politica, organizzato da esponenti delle classi medio-alte della società, ha acquistato progressivi consensi fra la popolazione e ha per anni pazientemente preparato la sua ascesa al potere attendendo il momento più propizio per mettere in atto i suoi piani di occupazione sistematica di tutte le posizioni chiave dello Stato. Da questo punto di vista è esemplare il caso dell’Egitto che nel gennaio 2011 è stato coinvolto nella rivolta che è dilagata con estrema celerità in Medioriente e che ha visto l’ascesa al potere del partito dei Fratelli Musulmani il quale, messe da parte le deboli forze democratiche e liberali presenti nel Paese che pure avevano partecipato inizialmente alle manifestazioni anti-Mubarak, ha assunto rapidamente il controllo della piazza e con essa del Paese. A questo punto, messo in discussione lo status quo dell’Egitto, alleato storico degli Usa, la mossa successiva che tutti si attendevano verteva su un forte intervento politico degli Stati Uniti al fine di garantire la continuità della politica estera del governo de Il Cairo a fronte dell’importante posizione strategica del Paese e dei conseguenti cospicui finanziamenti che Washington elargisce da decenni a favore delle forze armate e dell’economia del Paese del Nilo.
Oltre a ciò ci si attendeva che gli Americani iniziassero a mettere in atto tutta una serie di contromosse politiche volte a far sì che la propria supremazia nell’area, su cui si erano innestati gli interessi degli alleati degli Usa, non venisse messa in discussione da cambiamenti di regime che non andassero nella direzione più o meno desiderata. Abbiamo assistito al contrario ad una politica di “inazione totale” promossa dall’amministrazione Obama che, mano a mano che la situazione in Medioriente e nel Maghreb seguitava a precipitare, è rimasta ad osservare passiva quanto stava accadendo e a “benedire gratuitamente”, come accaduto in Egitto, qualunque regime tentasse di sorgere dalle ceneri dei precedenti governi rovesciati dalle proteste di piazza. L’assenza americana sullo scenario mediorientale da un lato ha messo in pericolo gli interessi europei nell’area e dall’altro ha lasciato attoniti i Paesi del Golfo che, a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale, hanno sempre contato sulla presenza politica e militare statunitense al fine di garantire la stabilità nella regione. In particolare la casa reale dei Saud ha iniziato a temere per la propria sopravvivenza politica quando il germe della rivolta è sbarcato sulla penisola arabica ed in particolare nel Bahrein. Nel piccolo regno del Golfo persico regna la dinastia degli Al-Khalifa di fede sunnita mentre la popolazione appartiene in maggioranza alla fede sciita.
La rivolta in Bahrein ha conosciuto subito l’infiltrazione di elementi filoiraniani e, di conseguenza, delle ambizioni regionali di Teheran, la quale ha tentato fin dai primi momenti di sfruttare la confusione in atto per estendere la propria influenza nella regione. Gli scontri di piazza in atto in Bahrein hanno immediatamente preoccupato Riyad che ha organizzato nel marzo 2011, su richiesta del re del Bahrein ed in collaborazione con gli Emirati Arabi Uniti ed altri paesi appartenenti al Consiglio di Cooperazione del Golfo, un intervento militare nel piccolo regno mediorientale scosso dalle richieste di riforme di una maggioranza che mal sopporta il governo della casa reale sunnita al potere. La vicina monarchia del Qatar non è rimasta a guardare gli eventi dall’esterno e, animata da un’intraprendente e spregiudicata politica estera promossa dall’emiro Hamad bin Khalifa Al Thani (a cui è succeduto il figlio nel giugno scorso), ha pensato bene di cavalcare l’onda delle rivolte laddove fossero presenti forti movimenti islamici, da sempre sostenuti politicamente e finanziariamente dall’emirato stesso: in primo luogo Egitto, Libia e Siria oltreché Tunisia. Nel febbraio 2011 sono scoppiate le prime rivolte in Libia che hanno visto la feroce repressione di Gheddafi, azioni che hanno suscitato l’indignazione della comunità internazionale.
In questo contesto si è affacciata la Francia che vanta forti interessi in Africa occidentale e che sta conducendo nell’area un serrato confronto politico-economico con le ambizioni internazionali della Cina. Il petrolio della Libia ed il suo ruolo geopolitico non hanno richiamato l’attenzione esclusivamente di Parigi ma anche di Londra, la quale ha compreso presto quanto fosse meglio “cavalcare la tigre” dei cambiamenti in atto in Medioriente appoggiando la richiesta francese di intervento militare contro il regime di Gheddafi piuttosto che stare a guardare i Francesi intavolare relazioni privilegiate con il mondo arabo, importante partner finanziario della City. Se Francia e Regno Unito hanno assunto subito l’iniziativa politica in Libia (anche in funzione anti-turca, anti-russa nonché anti-cinese), Washington, permeata dall’immobilismo obamiano, inizialmente non si è fatta coinvolgere dagli entusiasmi anglo-francesi per una possibile avventura libica, salvo poi partecipare alla campagna aerea contro Gheddafi grazie ai buoni uffici dell’allora Segretario di Stato Hillary Clinton e al più che probabile interessamento delle compagnie petrolifere americane. Sul fronte opposto al regime di Tripoli si sono aggiunti anche alcuni Paesi del Golfo, tra i quali il Qatar che da allora in poi ha assunto ufficialmente un ruolo chiave nei focolai di crisi più importanti del mondo islamico. Se da un lato Francia, Regno Unito e Paesi del Golfo sono diventati attori attivi in seno ai mutamenti storici in corso nel Vicino Oriente, dall’altro la politica estera obamiana ha mostrato tutta la sua inadeguatezza rispetto al ruolo politico-militare che gli Stati Uniti hanno saputo storicamente plasmare nei decenni successivi alla crisi di Suez del 1956.
Il declinare dell’influenza americana si è reso evidente non solo nella promozione del “non intervento” nelle crisi in atto ma anche nella gestione del travaglio egiziano con l’avallo del governo dei Fratelli Musulmani da parte della Casa Bianca, avallo al contrario negato dal premier britannico Cameron che nel corso di una sua visita a Il Cairo dopo la caduta di Mubarak ha incontrato tutti gli esponenti dell’opposizione al regime eccetto quelli dei Fratelli Musulmani. Da questo punto di vista gli Americani non solo hanno frettolosamente ed improvvidamente scaricato Mubarak lasciandolo al suo destino, in mano ad un esercito disorientato dagli eventi e politicamente abbandonato dai suoi alleati storici, ma hanno addirittura disconosciuto la loro politica estera precedente appoggiando con grande leggerezza un governo di stampo teocratico e di matrice anti-occidentale, quale quello dei Fratelli Musulmani, causando le ire di Israele e di alcuni Paesi arabi quali l’Arabia Saudita, traditi due volte dagli Americani, una prima volta di fronte alla loro inazione sul campo, una seconda volta di fronte all’appoggio offerto ai loro nemici storici o contingenti. Al contrario il Qatar, sostenitore dei Fratelli Musulmani, ha inizialmente tratto beneficio politico dal nuovo corso egiziano, trovandosi in contrasto con Riyad sul governo de Il Cairo ma in alleanza con l’Arabia Saudita in Libia e Siria.
La stessa politica estera americana ha conosciuto un nuovo tracollo di credibilità nel momento in cui l’esercito egiziano, un tempo “confortato” nelle proprie azioni dagli Stati Uniti, si è sentito sufficientemente forte per fare da sponda all’opposizione “laica e liberale” scesa prepotentemente in piazza contro Morsi (questa volta stranamente organizzatissima rispetto alla prima fase della rivolta egiziana quando fu letteralmente scaraventata giù dal palco dai Fratelli Musulmani) e per defenestrare definitivamente il governo dei Fratelli Musulmani, sostenuto politicamente dalla Casa Bianca, riabilitando infine la figura del deposto presidente Mubarak. Tutto ciò ha potuto avere luogo nel momento in cui alcuni Paesi del Golfo, Arabia Saudita in testa, hanno messo a disposizione de Il Cairo, oltreché il proprio appoggio politico, 12 miliardi di dollari come primo viatico per ristabilire l’ordine nel Paese, una cifra di denaro tale da far impallidire l’aiuto economico americano ancora elargito a favore dell’Egitto in cambio dell’accettazione di un nuovo status quo sostenuto da Obama che prevedesse il totale disimpegno della Casa Bianca tutto a vantaggio dei piani della fratellanza musulmana. E’ in quest’ottica che probabilmente va letta la sostanziale estromissione politica (e il suo conseguente “auto-allontanamento”) del mal sopportato El Baradei, “uomo per tutte le stagioni” ma ultimamente vicino a Washington e pertanto mal visto dal nuovo uomo forte d’Egitto, il generale Al-Sisi.
La caduta del regime dei Fratelli Musulmani ha ridimensionato le mire qatariote nel Medioriente mentre ha adombrato la supremazia saudita nell’area. Dopo che in Libia gli Americani avevano tentato, in maniera fallimentare, di mettere il “loro uomo” alla guida del governo del Paese, gli stessi hanno provato a mettere in atto la stessa tattica in Siria. In entrambe le situazioni la pragmatica politica della CIA non era supportata altrettanto fattivamente dalla Casa Bianca e, in mancanza di aiuti materiali e morali da parte di Washington, il candidato americano è stato defenestrato a favore di candidati vicini a chi offriva “contenuti concreti” alle rivoluzioni in corso. In Siria l’azione politica europea ha visto coinvolta in prima linea la Francia, quale ex potenza coloniale mandataria a cui l’opposizione siriana ha chiesto apertamente aiuto, ed il Regno Unito, quale interprete delle preoccupazioni dei Paesi del Golfo, nelle vesti di partner economici di Londra e di “ex colonizzati” di Sua Maestà. Questa volta tuttavia il Qatar e l’Arabia Saudita si sono trovati, come in Libia, dalla stessa parte nel ruolo di principali finanziatori e sostenitori dei gruppi di opposizione, il Qatar maggiormente rivolto ai gruppi islamisti con risvolti per la verità piuttosto ambigui, l’Arabia Saudita interessata alla leadership sul campo prontamente assunta a suon di petroldollari ai danni del politicamente effimero candidato americano.
La Siria, per quanto di maggioranza sunnita, tuttavia ha presentato fin da subito difficoltà politico-militari non di poco conto dato che il regime della minoranza alawita (di matrice “sciita”) di Assad non è politicamente isolato come quello libico o concatenato con l’Occidente come quello egiziano. Assad può godere della protezione della Russia, la quale beneficia dell’utilizzo di una base navale a Tartus fin dai tempi della Guerra Fredda, e dell’Iran (a sua volta legato a Russia e Cina), che necessita dell’appoggio siriano per minacciare i Paesi del Golfo, Israele e porre sotto scacco il Libano e Tel Aviv tramite Hezbollah. Israele, disorientato dalla posizione americana, in questo contesto ha indubbiamente dovuto rivedere le sue priorità nella regione, condannare la caduta del regime di Mubarak e plaudere al ritorno dell’esercito al potere, condividere assieme alla Turchia l’aiuto all’opposizione siriana contro Assad ma sostenere Al-Sisi dalle critiche dell’islamico Erdogan, supportare l’Arabia Saudita, pur temendone l’accresciuta potenza, nell’azione in Siria ed in Egitto ma contrastare i piani qatarioti in Egitto a favore dei Fratelli Musulmani e, di conseguenza, di Hamas.
Oggi l’Arabia Saudita, assieme ai Paesi del Golfo compreso un Qatar che sembra aver intrapreso una strada caratterizzata da più miti consigli rispetto il mondo dell’integralismo islamico, nei fatti rappresenta il più importante attore politico della regione, un perno sul quale gli interessi di singoli stati europei (non dell’Unione Europea in quanto tale, la quale continua a dimostrare la propria ininfluenza politica) hanno posto il loro lubrificante per favorire la stabilizzazione dell’area. Allo stesso modo la politica del presidente Obama, il quale vive fin dalla sua prima elezione alla Casa Bianca quale separato in casa con il Pentagono e con i “falchi” americani, è piuttosto estranea alla tradizionale visione strategica statunitense nella regione. Obama, rinchiusosi a riccio sui problemi della politica interna (con modesto successo per la verità), ha dimostrato di possedere scarso interesse per le crisi internazionali e forse, in cuor suo, simpatizza per quelle rivendicazioni, giuste o sbagliate che siano, che mostrano “corrispondenza di amorosi sensi” con la storia del proprio vissuto personale e familiare. Se da un lato Obama è forse l’interprete di quelle che sono le aspettative e le priorità delle classi sociali medio-basse che fanno sentire una crescente pressione in seno al corpo elettorale americano, dall’altro, così facendo, il ruolo geopolitico degli Stati Uniti nel mondo si avvia verso un inevitabile ridimensionamento.
Se in campo occidentale diminuisce il ruolo degli Usa aumenta quello anglo-francese ed in particolare Parigi sta conducendo con successo, in cooperazione con le forze armate di alcune ex-colonie, un intervento militare in Mali contro le milizie islamiche inizialmente sostenute dal Qatar, accrescendo il proprio prestigio politico-militare in seno a quello che la Francia considera il “proprio giardino di casa” e mettendo in secondo piano una Cina che, per quanto colosso economico, è ancora un attore politico immaturo frenato da una classe dirigente non ancora preparata a compiere il “grande balzo in avanti” nel mondo. E’ altresì difficile valutare se l’obamismo imperante sia una tendenza destinata a durare o meno nel lungo periodo, tuttavia le difficoltà del bilancio federale degli Stati Uniti lasciano presagire che l’obamismo tragga in parte anche ragione da problematiche legate a più comprensibili difficoltà finanziarie e a conseguenti tagli nel comparto della Difesa.
Alex Famiglini – geopolitica.info, 23 settembre