L’Europa sta attraversando una crisi epocale, un passaggio difficile, un momento di smarrimento e di dimenticanza di sé. Il disprezzo per la propria storia, per la cultura e per i valori fondanti e originari, ci sta condannando progressivamente, e inesorabilmente, a un futuro cupo, triste, facile preda di irrazionalismi e inciviltà diffuse. Il nichilismo religioso, l’indifferentismo etico, il qualunquismo senza identità e appartenenza sono solo alcuni sintomi di un male radicato e profondo, difficile da medicare. Ne parliamo con il professor Marco Cimmino, storico, saggista e giornalista, mente originalissima e spirito libero. Pensatore non allineato, figura scomoda e provocatoria: una voce alternativa e mai banale. Esperto di storia militare e narratore acuto delle complesse vicende dei nostri tempi.
Stiamo assistendo a un progressivo e diffuso livellamento culturale. Il virus della cancel culture sta occupando luoghi e spazi tradizionalmente adibiti alla diffusione del sapere libero e critico. Come si posiziona un intellettuale come lei, di fronte a una deriva tanto evidente quanto preoccupante?
Prima di tutto, mi pongo di fronte a questa deriva desolante come cittadino e uomo libero: trovo intollerabile che siano l’ignoranza più crassa, la rabbia sociale, gli istinti più bestiali a decidere della nostra libertà e della nostra memoria. La cancel culture è tutto fuorché una cultura: anzi, è la negazione della cultura. E coloro i quali si allineano a questa deriva canagliesca sono canaglie a loro volta: canaglie senza neppure la dignità di rischiare in proprio. Quanto al ruolo dell’intellettuale, io credo sia tempo che questa figura torni a rivestire un ruolo di guida, di esempio per il popolo: esattamente come avvenne per il pragmatismo o l’interventismo, oggi c’è bisogno di uomini di pensiero che sappiano indicare la strada, ma che abbiano anche il coraggio di impegnarsi, di s’engager in prima persona. Insomma, deve tornare a farsi sentire l’intellettuale militante: la sua voce deve sovrastare il raglio dei somari e l’abbaiare dei cani. È finito il tempo dei salotti felpati, dei linguaggi ieratici, delle torri d’avorio: è, del pari, finito il tempo dei cialtroni al potere, dell’inadeguatezza come valore, delle chiacchiere vane. Per fare bene certe cose occorrono le carte bollate al loro posto: per comandare la corvée cucina basta un sergente, ma per vincere le guerre occorrono i generali.
Lei è un acuto osservatore delle vicende del nostro tempo. Muovendo dalla sua formazione storica, vorrebbe aiutarci a comprendere meglio le cause del conflitto in corso tra Russia e Ucraina?
Premetto che, alla vigilia della guerra, io, sia pure in ottima compagnia, ho preso una cantonata clamorosa, negando assolutamente l’eventualità dello scoppio di un conflitto di queste proporzioni: non mi pareva avesse senso (né mi pare oggi) la strategia di Putin. Tuttavia, i fatti mi hanno smentito e mi pare onesto ammetterlo e domandare scusa. La mia opinione, comunque, è che in questa conflagrazione militare così bizzarra concorrano elementi di vario genere. Una ragione geostrategica: la Russia ha percepito il progressivo allargamento a est della NATO come una ricerca di Lebensraum, in uno spazio che i Russi avevano da sempre considerato zona di loro interesse. Anche sul ruolo della NATO e sulla sua reale necessità andrebbe rivista qualche cosa. Una ragione politica: Putin aveva la necessità di riaffermare il proprio ruolo di uomo che decide, di conducator, che rischiava di appannarsi. Una ragione culturale: Putin crede nel ruolo imperiale della Russia, fino a restarne obnubilato. Una ragione storica: la Russia è nata nell’attuale Ucraina, nel Rus’ di Kiev. Lo Slovo è il canto dell’anima Russa, Alexander Nevsky ne è il simbolo, utilizzato perfino dall’URSS. Insomma, vi sono molteplici ragioni, non ultimo il putsch del 2014 e l’atteggiamento ucraino nei confronti dei russofoni del Donbass. Da un punto di vista militare, questa guerra rischia davvero d’incistarsi, come un Vietnam urbano: come gli USA in Indocina, la Russia non può dispiegare il suo potenziale e deve subire la controtattica ucraina, sostenuta dalle armi occidentali, come i Javelin. Soprattutto, in caso di vittoria, Putin non sarebbe mai in grado di controllare militarmente un territorio ostile di quelle dimensioni, perciò risulta difficile capirne fino in fondo la strategia.
Gli attacchi nei confronti della storia, dell’arte, della letteratura, dello sport ecc… del mondo russo, a cui abbiamo assistito di recente, anche in Italia, non rischiano di rappresentare un clamoroso errore di giudizio e di valutazione? E se fosse proprio la cultura, invece, lo strumento più efficace per tessere, nuovamente, relazioni di pace durature e autentiche?
Mai, neppure di fronte a una guerra totale e senza quartiere come la seconda guerra mondiale, si era assistito a un embargo culturale. Vietare l’accesso ai libri o agli sportivi russi rappresenta una monumentale idiozia: la negazione di duemila anni di civiltà. In effetti, proprio la cultura comune, proprio Dostoevskij, Gogol, Cechov, che fanno parte integrante del nostro bagaglio culturale, dovrebbero essere il tramite per una reciproca comprensione, per un tornare a ragionare da Europei. Viceversa, metterli al bando denuncia una spaventosa inciviltà valoriale: una grettezza e un provincialismo che fanno paura. D’altronde, viviamo in un’epoca terribilmente ignorante, in cui si raggiungono abissi di analfabetismo e di saccenza mai visti. Per ricucire un rapporto eurasiatico con la Russia occorrerebbero mente aperta e curiosa, sensibilità, cultura cosmopolita: tutte cose di cui siamo privi da tempo. Una volta si diceva: una risata vi seppellirà. Oggi, scopriamo che, qualunque cosa ci seppellirà, non c’è proprio nulla da ridere.