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Libertà di parola/ Le sciocchezze di Severgnini e le censure daltoniche di Twitter

di Gian Micalessin
16 Gennaio 2021
in Home, Mondi
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«I social non possono essere tubi vuoti dove passa di tutto». È una delle tre ragioni con cui Beppe Severgnini giustifica sul Corriere della Sera la chiusura dell’account di Donald Trump su Twitter. Ma più che un tubo vuoto il microblogger del miliardario Jack Dorsey è uno spregiudicato Giano bifronte. I primi a scoprirlo furono J.M. Berger e Jonathon Morgan, due ricercatori del Brooking Institute (blasonato think tank liberal) autori, nel marzo 2015, dell’inchiesta The Isis Twitter Census ovvero «Il censimento dell’Isis su Twitter». L’inchiesta, rivelava la presenza sul microblogger di 46mila account intestati a militanti e sostenitori dello Stato islamico usati per diffondere una media quotidiana di 90mila cinguettii in cui si esaltava la violenza terrorista.

Alla ricerca, oggetto di un rapporto di Europol al Consiglio Europeo, seguirono le richieste del governo Usa di chiudere gli account incriminati. L’allora segretario alla Difesa Ashton Carter commentando il rapporto al Senato di Washington descrisse la «situazione senza precedenti di un gruppo terroristico alimentato dai social media». Ma per quasi un anno Twitter non mosse un dito e continuò a garantire la proliferazione di quell’elegia del terrore. Il tutto nel nome di «The tweets must flows» (I tweet devono fluire) il «manifesto» del 2011 con cui si proponeva di garantire la libertà d’espressione e «mantenere il flusso delle informazioni indipendentemente da qualsiasi punto di vista sul contenuto». Tesi ribadite nel «transparency report» (rapporto sulla trasparenza) del 2015 con cui il social rivendicava i 25 no opposti ad altrettante richieste di chiusura del governo Usa.

Un no sbattuto in faccia anche alle autorità inglesi che reclamavano la rimozione dell’account da 32mila followers di Anjam Choudari il «predicatore» dell’Isis condannato a sei anni di galera nel 2016. Solo alla fine di quell’anno, dopo crescenti pressioni dell’amministrazione Obama, Twitter iniziò a tacitare le voci del Califfato. Contemporaneamente, però, il suo algoritmo suggeriva a milioni di utenti l’account di Donald Trump protagonista, tra le polemiche, di una campagna elettorale condotta a colpi di sferzanti quanto devastanti tweet. Tweet che grazie alla promozione interna garantita dall’algoritmo consentirono al tycoon di raggiungere 88 milioni di seguaci contribuendo alle fortune del social e all’incremento delle fortune di Dorsey e dei suoi azionisti.

Una connivenza d’interessi che Dorsey e compagnia si sono ben guardati dal mettere a rischio finché il «diritto d’espressione» di Trump è coinciso con il suo ruolo di presidente. Ma che è divenuta improvvisamente imbarazzante all’indomani della sua sconfitta elettorale. Tanto da spingere i puntigliosi difensori della libertà d’espressione a equiparare le parole del Presidente ai sermoni dei predicatori dell’Isis. Insomma più che un tubo vuoto Twitter sembra un tubo gonfio d’interessi dove la libertà d’espressione vien difesa finché scorre nello stesso senso dei profitti.

Ma se questo è il metro bisogna chiedersi cosa sia più pericoloso per le nostre libertà. Se l’irripetibile l’assalto di qualche centinaio d’esaltati a un Congresso sguarnito e indifeso o la permanente sottomissione alle regole di un Grande Fratello pronto a definire limiti e steccati della libertà di parola non in base alla volontà degli elettori, ma a quella dei suoi interessati azionisti.

 

Tags: Beppe SevergniniDonald Trumptwitter
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