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Le streghe di Roald Dahl offendono ancora

di Tommaso de Brabant
29 Maggio 2021
in Multimedia
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Le streghe di Roald Dahl offendono ancora
       

Dal (perfido) romanzo di Roald Dahl “Le streghe” (1983), già portato sullo schermo da Nicolas Roeg e Jim Henson (“Chi ha paura delle streghe”, 1990). Alabama, 1968: rimasto orfano in seguito a un incidente stradale, un bambino afroamericano è affidato alla nonna materna, che riesce a ridestarlo dal lutto. Quando scoprono d’essere incappati nelle streghe (con le quali la nonna, da ragazzina, si era già scontrata), si trasferiscono in un albergo sul mare: ma proprio in esso, la Grande Strega Suprema sta radunando le sue adepte per trasformare in ratti tutti i bambini (dei quali detestano l’odore) del mondo.

Netto il divario col precedente film (in originale intitolato, molto semplicemente come il romanzo, “The Witches”, e distribuito in italiano come “Chi ha paura delle streghe?”), apprezzato dallo stesso Dahl (che fece appena in tempo a vederlo, trovandolo assai spaventoso): del resto Robert Zemeckis (responsabile, assieme al suo mentore Spielberg, dell’appiattimento del cinema per ragazzi) non è Roeg, il quale è stato un sottovalutato cineasta intelligente, colto e originale (ma nel pieno d’un periodo di crisi cominciato negli anni ’80 e terminato soltanto con la morte nel regista).

Per di più Roeg, oltre ad avvalersi del romanzo di un genio, per “Chi ha paura delle streghe?” era affiancato da Jim Henson, creatore di Muppet e di fatto co-autore del film. Si aggiunga che la protagonista di quel film era Anjelica Huston in stato di grazia. Senza nulla togliere al terzetto Dahl-Roeg-Henson, buona parte della riuscita del primo “The Witches” era dovuto proprio alla straordinaria performance della Huston nei panni della Grande Strega Suprema.

Per nulla intimorita dal confronto, la bellissima Anne Hathaway esagera: e fa bene. Laddove la Huston, pur ironica, era solenne e sorniona, la Hathaway è buffonesca e istrionica: e abbastanza coraggiosa da farsi drasticamente imbruttire col trucco virtuale (ahinoi, Zemeckis ricorre per qualsiasi cosa al computer: con Henson, la magia del cinema era autentica).

Nettamente inferiore al suo predecessore, “Le streghe” è un film carino; non ha del cult di Roeg il fascino, la magia, l’inquietudine, la morbosità. È più leggero e facile, molto meno cattivo. Il suo pregio migliore è l’interpretazione di Anne Hathaway; i suoi difetti, i ruoli di contorno (il bravo Stanley Tucci appena compare, Octavia Spencer – già premio Oscar per motivi politici – è quasi immobile) e il pervasivo ricorso al CGI (intere scene sono generate al computer). Così come nel romanzo di Dahl, i tre protagonisti (la nonna, il ragazzo e la Grande Strega Suprema) del film di Zemeckis non hanno nome (nel film di Roeg invece si chiamano Helga e Luke Eveshim, Evangeline Ernst).

Il nuovo film sposta però l’ambientazione dall’Inghilterra contemporanea agli Stati Uniti di mezzo secolo prima, e i due protagonisti positivi diventano afroamericani (anziché norvegesi, come lo stesso Dahl). Nonostante l’evidente ammiccamento ai dogmi politicamente corretti – per l’appunto, trasformare i due eroi del film in afroamericani – le polemiche non sono mancate: tra i vari dettagli ripugnanti nel reale aspetto delle streghe, vi sono le mani con tre artigli al posto delle dita. Qualche “paladino” dei diritti civili (tradotto: nullapensante buono a niente) vi ha visto un’offesa alle persone affette da ectrodattilia: il film lascerebbe passare l’idea che le deformità si accompagnino alla mostruosità (con buona pace di secoli di fiabe in cui succede proprio ciò – può confermarlo un regista a me caro). La Warner Bros e, con tanto di videomessaggio, la Hathaway hanno dovuto scusarsi pubblicamente. Fa loro onore aver avuto la pazienza di replicare cortesemente.

Uno dei tanti film vittima del Covid: dapprima programmato per l’uscita in sala nell’ottobre 2020, è stato poi distribuito su piattaforme streaming (dove è tuttora reperibile), ma dovrebbe approdare nei cinema nell’autunno 2021.

Tags: cinemaRoald Dahl
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