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Letterina (un po’ scocciata) a Gregorio De Falco, naufrago della politica

di Alfonso Mignone
26 Luglio 2019
in Home, Pòlis
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Letterina (un po’ scocciata) a Gregorio De Falco, naufrago della politica
       

Caro Comandante De Falco ancora una volta Lei offende il prestigio della divisa che ha indossato, utilizzando, senza alcuna qualifica di esperto in diritto marittimo, i media col solo fine di ottenere visibilità a scopi — inutile nasconderlo, elettoralistici — e, cosa ancora più grave, sostenendo argomentazioni (non so se volutamente o no) inesatte e/o incomplete.


In primis la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, firmata a Montego Bay nel 1982 e resa esecutiva in Italia dal 1994, stabilisce il principio generale di libertà di navigazione nelle acque territoriali di uno Stato, da parte di ogni nave straniera nel rispetto dell’inderogabile principio di inoffensivita’ statuito dall’articolo 19 che deve essere rispettato anche in occasione del passaggio per motivi di soccorso di cui al precedente articolo 18. Lei asserisce che è ostile solo “una nave con i cannoni pronti a fare fuoco o che compie operazioni illegali di carico o scarico, o un sommergibile in immersione”, dimenticando la portata più ampia della norma in questione, che elenca in maniera tassativa diversi casi tra cui la violazione di leggi interne sull’immigrazione dello Stato costiero.


Aggiunge, altresì, che “sicuramente non è questo il caso delle ONG” perché “quelli che chiamiamo migranti, fin quando non richiedono asilo, protezione internazionale o qualsiasi altra forma di accesso, per il diritto internazionale sono ancora naufraghi”. Ebbene sarebbe anche il caso di chiarire — considerato che Lei ha svolto funzioni di carattere tecnico – operativo alla Capitaneria di Porto di Livorno — che le persone raccolte in mare, a bordo di gommoni o fatiscenti barconi in partenza dai porti libici non siano inquadrabili giuridicamente come “naufraghi” nel senso tecnico-nautico che la disciplina marittimistica impone alla luce del diritto internazionale uniforme in materia di soccorso in mare (SOLAS 1974, SAR 1979, UNCLOS 1982 e SALVAGE 1989). Nelle operazioni (viste le dinamiche sono impropriamente definite “search and rescue” ed è come definire ancora “pesca” e non “raccolta” quella del tonno rosso nel Mediterraneo viste le tecnologie utilizzate) delle navi ONG non è ravvisabile quel carattere “emergenziale” che contraddistingue l’evento “naufragio”. Sin dal diritto romano si faceva derivare tale termine da “navis fractio” ed esso è contraddistinto ancora oggi dalla perdita totale della nave per cause accidentali cui può far seguito, anche se non necessariamente, la sua completa sommersione.

Lei sostiene ancora che “secondo la dottrina dominante infatti il naufrago è colui che è in pericolo di perdersi in mare” e che “un naufragio invece si verifica anche solo quando l’imbarcazione non è più in grado di navigare regolarmente”. Se leggiamo attentamente l’articolo 489 codice della navigazione novellato dopo la ratifica della Convenzione di Londra del 1989 (c. d. SALVAGE) per quanto concerne “il pericolo di perdersi” è sì contemplato ma viene riferito alle navi o aeromobili di cui è fatto obbligo di soccorso e non alle persone dimostrando ancora una volta come sia l’elemento tecnico-nautico a caratterizzare il naufragio e lo status delle persone a bordo.


Quanto alla Tunisia che non può garantire il “Place of Safety (POS”) in quanto “non ha una normativa che regoli l’accesso alla protezione internazionale in quanto ha firmato la Convenzione di Ginevra, ma non l’ha attuata. E non ha nemmeno i mezzi per soccorrere le persone”. Ma se non si è mai accertato ex ante lo status delle persone a bordo delle navi ONG (già impropriamente sono “naufraghi” ma gli si vuole attribuire anche altri status come quelli di profugo, rifugiato, migrante) — ed il fine del soccorso in mare secondo la Convenzione di Amburgo del 1979 (c. d. SAR) è di tutelare la sicurezza della navigazione mercantile e delle persone a bordo statuendo che il POS è la località dove le operazioni di soccorso si concludono e dove la sicurezza e la vita dei sopravvissuti, nonché le esigenze primarie (cibo, alloggio e cure mediche) possono essere soddisfatte e può essere organizzato il trasporto alla loro prossima destinazione (o a quella finale) — non è dato comprendere come la Tunisia non possa svolgere questo ruolo a prescindere, considerato anche che la presunta “pericolosità” per lo sbarco di persone soccorse non emerge da nessuna fonte internazionale rigorosa e di carattere vincolante.

Tags: Diritto internazionaleDiritto marittimoGregorio De Falcoimmigrazione clandestinaMareMediterraneoongTunisia
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