” Sforza? “Uomo stupido e instabile, ma non reazionario… che puo’ essere influenzato”.
Ruini? “Persona flessibile e molto vanitosa in cerca di successo personale”.
Brosio? “Uomo di limitata visione politica e poco perspicace, che nel ruolo di ambasciatore si comportera’… come un avvocato di provincia”. Sono i giudizi che Togliatti espresse nel 1946 su alcuni dei sospetti oppositori alla sua azione intesa a sostenere l’annessione di Trieste alla Jugoslavia, richiesta da Stalin e pretesa da Tito.
Si dimentica tutto, la storia corre piu’ veloce dei ricordi. Ma non credo che Trieste si sia dimenticata gli anni tra la fine della guerra e il 1948, quando si gioco’ il suo destino e corse il rischio, per l’azione del Pci, d’essere staccata dall’Italia senza poter far sentire la sua voce.
“Se la linea Stalin – Togliatti avesse avuto il sopravvento, oggi l’italianita’ di Trieste non rimarrebbe molto piu’ che memoria storica, qualcosa di simile al ricordo di Konigsberg nella citta’ di Kaliningrad”, come scrivono Elena Aga Rossi e Victor Zaslawsky nel loro libro Togliatti e Stalin (Il Mulino), cosi’ sgradito ai nostalgici del “je ne regrette rien”.
Il problema di Trieste e’ al centro delle rivendicazioni jugoslave, sostenute dal Cremlino, fin dal 1941. Gia’ nell’ottobre di quell’anno Stalin avverte Eden che, dopo la pace, Trieste dovra’ andare alla Jugoslavia. Piu’ tardi, nel 1944, segue un incontro segreto a Roma tra Togliatti, Milovan Gilas e Kardelj, mandati in missione da Tito. Tema: Trieste.
Togliatti e’ d’accordo con Stalin, la Jugoslavia se la prenda, ma per il momento meglio stare zitti per evitare in Italia reazioni negative per il Pci. Nemmeno i comunisti triestini sarebbero felici, Togliatti si sforza di convincerli: “In tutti i modi dobbiamo favorire l’occupazione da parte delle truppe del maresciallo Tito”.Gli ordini sono questi e vengono da Stalin. Il quale, con la buona grazia e il tatto politico che lo distinguono, li conferma nel gennaio 1945 a una delegazione jugoslava salita a Mosca per ribadire le richieste di Tito. Gli assicurano che i triestini sono pronti all’annessione, tranne piccoli gruppi di autonomisti. Lui li tranquillizza, ecco che cosa devono fare: “Affogateli”.
Non si conoscono reazioni di Togliatti alla elegante soluzione, in compenso il suo pensiero circa Trieste non lascia dubbi: “In questa guerra l’Italia e’ stata l’aggressore rispetto alla Jugoslavia e… questa ha il pieno diritto di contare sulla totale soddisfazione delle sue rivendicazioni territoriali”. Poi, il colpo di scena che, secondo il Pci, dovrebbe placare i risentimenti nazionalistici e risolvere il problema.
Nel novembre 1946 Togliatti incontra Tito e si accorda con lui per lo scambio Trieste contro Gorizia. L’annuncio lo da’ egli stesso in tono trionfalistico sull’Unita’, ma Nenni non gradisce: “Tito rinuncia a cio’ che non ha e ci chiede cio’ che abbiamo”; per non dire dell’ondata di sdegno che immediatamente travolge quel baratto. Specie a Trieste dove era ancora vivo il terrore per la feroce e sanguinaria occupazione titina del maggio 1945, quando Togliatti aveva esortato “ad accogliere le truppe di Tito come truppe liberatrici”.
Trieste aveva pagato a caro prezzo in troppe occasioni: a cominciare da quelle del 1943, quando i fascisti della Repubblica sociale l’avevano lasciata, con la Venezia Giulia, ai tedeschi.
Ma di colpo, nel 1948, il problema di Trieste perde smalto. C’e’ la rottura tra Tito e Stalin, il Pci appoggia ovviamente l’Urss e i comunisti possono trasformarsi in difensori dell’italianita’ della citta’, contro le mire dello sconfessato despota di Belgrado. Stalin non ha piu’ interesse ad appoggiarne le richieste di revisione dei confini giuliani, sebbene per lo Stato italiano non mostri maggiore simpatia di quanto ne manifesti oggi la Lega.
Togliatti non ha piu’ bisogno di insolentire Sforza, Brosio e gli altri “ruderi” del passato; non deve piu’ preoccuparsi di costituire una cellula comunista al ministero degli Esteri per controllare le mosse del governo; non corre piu’ a riferire ogni giorno all’ambasciatore sovietico Kostylev. Non c’e’ necessita’. Il destino di Trieste, per quanto riguarda il Pci, consente di schierarsi in difesa dell’italianita’. Come diceva Guareschi: “Contrordine, compagni”.
Ma la questione si riaccende periodicamente fino all’ottobre 1954, quando la risolve l’accordo degli Alleati grazie al quale Trieste e’ assegnata all’Italia. Su quegli anni travagliati, dal 1948 al 1954, getta ora una luce rivelatrice Paolo Emilio Taviani, all’epoca ministro della Difesa, con il suo libro I giorni di Trieste (Il Mulino).
Nelle sue pagine sono raccontate, giorno per giorno, le tribolazioni italiane di fronte all’aggressivita’ di Tito, giunto a rivendicare minacciosamente i suoi “diritti” sulla citta’ perfino con un grande comizio nella valle del Vipacco, proprio al confine.
Il diario di Taviani chiarisce con documenti inediti quello che parve a molti un inutile bluff: la decisione del presidente del Consiglio Pella di schierare alcune divisioni a Gorizia, per rispondere alle minacce con quella che pareva fermezza.
Si legge di notti trascorse al telefono in attesa di notizie dal “fronte”, quasi in attesa dello scoppio di ostilita’ che gli Alleati non avrebbero mai consentite. Tuttavia Taviani visse quei giorni con sincera passione, nell’alternarsi dei timori e delle speranze, quando ogni decisione poteva comportare conseguenze fatali. Incuriosisce notare la scomparsa dalla scena dei comunisti mentre si decide la sorte di Trieste, quasi non ne fossero piu’ intressati. E probabilmente era cosi’.
Poi, il 5 ottobre 1954, Taviani puo’ scrivere: “La bandiera italiana e’ tornata a Trieste!”, col punto esclamativo. Ed Einaudi interviene con un suo messaggio. “Non l’aveva mai fatto, essendosi sempre mantenuto rigorosamente fedele alla funzione altamente notarile di capo dello Stato”. Qui un altro punto esclamativo non avrebbe stonato.
Silvio Bertoldi
(Corriere della Sera aprile 1998)