Al peggio non vi è limite. Potrebbe essere questo il motto fondante di Siria e Libano, due Paesi splendidi ma devastati dai conflitti e dalla corruzione e stritolati dalla miseria più nera, più cupa. Dopo anni terribili — la guerra civile in Siria e la liquefazione dell’apparato statale in Libano — ora arriva il colera. Damasco ha registrato in sei settimane 13mila casi sospetti con 60 morti accertati mentre Beirut dichiara 170 ricoveri e cinque decessi. Numeri ancora ridotti ma nessuno si fa illusioni, questo è solo l’inizio.
In Siria l’epidemia si è sviluppata nelle devastate zone rurali del Nord Est e nella regione d’Aleppo ed è causata dall’inquinamento delle acque. Dopo undici anni di feroci combattimenti la rete idrica che prima assicurava il rifornimento al 95 per cento della popolazione è in gran parte distrutta o danneggiata e meno della metà dei siriani ha oggi la disponibilità d’acqua potabile. Gli altri, tutti gli altri, sono costretti ad abbeverarsi a piccoli pozzi artigianali, strutture primitive prive d’ogni controllo sanitario. Un disastro a cui si aggiungono due anni di siccità e il conseguente abbassamento dell’Eufrate, il grande fiume che assicurava l’irrigazione della regione. Vista l’assenza o quasi di interventi statali — il regime di Bashar al-Assad è praticamente sul lastrico e l’alleato russo ha attualmente altri problemi…. — sono arrivati i volontari di Medecins sans Frontieres (MSF) che hanno aperto a Raqqa un ospedale da campo, dove in pochi giorni sono stati accolti oltre 600 pazienti, di cui un terzo gravemente malati.
L’epidemia si è velocemente estesa anche al vicino Libano, aggiungendo un altro incubo ad una nazione in piena bancarotta, con più dell’80 per cento della popolazione in stato di estrema povertà e dove mancano persino i soldi per mantenere operative le stazioni di pompaggio e controllare gli acquedotti. Il primo focolaio è stato identificato nel distretto dell’Akkar confinante con la Siria e nella valle della Bekka. Qui da tempo l’acqua non arriva più e il rifornimento è garantito ad intermittenza da camion cisterna mentre anche il sistema fognario è tracollato con conseguenze facilmente intuibili.
A farne le spese in primis sono stati i campi dei rifugiati siriani — complessi praticamente invivibili e quasi privi di strutture sanitarie serie — ma ormai il contagio, come ammesso dal ministro della sanità libanese Firas Abiad, “si sta propagando anche tra le comunità di libanesi a causa del deterioramento delle condizioni igienico-sanitarie, e questo di fronte al del collasso delle istituzioni locali e centrali alla luce della peggiore crisi finanziaria della storia del paese”. A peggiorare ulteriormente la già compromessa situazione del Paese dei cedri vi è poi il massiccio esodo del personale medico verso l’Europa o i Paesi del Golfo. I pochi ospedali ancora funzionanti a Beirut e nell’entroterra lavorano — anche a causa delle continue interruzioni di corrente elettrica — a ritmi ridotti, con ranghi sguarniti e i medicinali, persino quelli più comuni, vengono meticolosamente razionati.
Una catastrofe umanitaria nel Levante martoriato è dunque prossima se la comunità internazionale non interviene rapidamente e in modo massiccio. Ricordiamo che, come ripete MSF, il colera “è un’infezione diarroica intestinale causata dal batterio Vibrio cholerae. L’infezione provoca vomito e diarrea e può causare rapidamente una perdita di liquidi corporei tali da portare alla disidratazione e allo shock che, nei casi più gravi, possono essere fatali. La sua trasmissione avviene per contatto orale, diretto o indiretto, con alimenti e acqua contaminati da materiale fecale di soggetti infetti portatori del vibrione o convalescenti”. Si tratta, tuttavia, di una patologia semplice da trattare. Basta reintegrare i liquidi corporei e gli elettroliti persi tramite soluzioni orali o intravenose e la mortalità scende a meno dell’1 per cento. Come sempre è una questione di volontà politica.