Peggio di così per l’Italia non poteva andare. Aspiravamo a diventare i gradi mediatori, l’ombelico di tutte le politiche internazionali della Libia e ci ritroviamo con un pugno di mosche in mano. A Palermo l’Italia invece di domare il generale Khalifa Haftar, è riuscita a trasformarlo nel guastatore e al tempo stesso nel trionfatore della Conferenza sulla Libia. Non paghi di questo siamo pure riusciti a trascurare e a umiliare il debole, ma indispensabile premier Fayez Al Sarraj da cui dipende il nostro ruolo in una Tripolitania scrigno degli interessi strategici dell’Italia dal petrolio al gas, fino al controllo dei flussi migratori. E, ciliegina sulla torta, siano riusciti a inimicarci la Turchia che dopo aver abbandonato la conferenza stizzita per l’eccesso di onori garantiti ad Haftar non perderà l’occasione di farcela pagare attraverso le milizie dei Fratelli Musulmani. Da ultimo dimostrandoci incapaci di fissare un programma guida per la Conferenza e di convincere le parti libiche a firmare le conclusioni finali abbiamo offerto una pessima immagine ai nostri partner internazionali.
Ma partiamo da Haftar trasformatosi da interlocutore in vera ossessione del governo italiano. Che Haftar sia un uomo della Francia e un ostacolo alle politiche italiane in Libia lo si sapeva. Proprio per questo bisognava evitare di rincorrerlo come spasimanti smaniosi trasformandolo nell’indiscusso protagonista. Anche perché pur essendo vicino a Emmanuel Macron e a Parigi il generale deve molto anche a Mosca e al Cairo.
Su questi due assi dovevamo puntare per arrivare a Palermo con un progetto politico che obbligasse Haftar a dialogare non solo con Sarraj, ma anche con Misurata. Anche perché non ci potrà mai esser un accordo di riunificazione senza un’intesa con una città stato diventata il terzo polo strategico del paese grazie alla sua forza militare, al suo ruolo nella sconfitta dell’Isis a Sirte e alla sua posizione geografica a metà strada tra Bengasi e Tripoli. Dal 2011 ad oggi nessuno dei nostri 007, dei nostri diplomatici, dei nostri uomini di governo ha mai ignorato questa dimensione tripolare del problema libico a cui, come se non bastasse, vanno aggiunte le complessità tribali e del sud.
Quel piano diventato, in mancanza di un progetto politico italiano, l’unico terreno di discussione della Conferenza di Palermo prevede la costituzione di una “Grande Assemblea” capace di guidare il paese alle elezioni politiche, al rinnovo della Costituzione ed infine alle presidenziali. Proprio queste ultime nei piani inespressi di Haftar dovrebbero regalargli il titolo di vero signore della Libia. Un’illusione più che una legittima aspirazione visto che senza un compromesso né Misurata, né le milizie vicine alla Fratellanza Musulmana, appoggiate da Qatar e Turchia, glielo permetteranno. Ma proprio i legami con Misurata dove teniamo aperto un ospedale da campo che è anche base militare e quelli con Tripoli, dove siamo i soli a tener aperta un’ambasciata e gestire una missione militare, ci avrebbero consentito di mettere giù una bozza di compromesso parallela al piano Onu.
Un percorso su cui ci avrebbe volentieri seguito e aiutato una Russia decisa a sviluppare la sua presenza in Libia, ma forte, per ora, solo nelle relazioni con Haftar. E su cui poteva darci una mano anche l’Egitto consapevole che il solo Haftar non basterà a risolvere il problema Libia. Ma le provocazioni del generale e le sue battute su una Conferenza “a cui non parteciperei neppure se dovesse durare cent’anni” fanno capire che la diplomazia italiana non è riuscita a muoversi neppure in questo triangolo. E come se non bastasse è mancato l’aiuto e l’appoggio degli Stati Uniti garantito al premier Giuseppe Conte da Donald Trump durante l’ incontro alla Casa Bianca della scorsa estate. Un incontro durante il quale era nata peraltro l’idea della Conferenza. Ma più che una promessa da marinaio quella di Trump è stata un’inevitabile conseguenza delle politiche americane da sempre assai poco interessate al complesso e inestricabile universo libico. E così tra errori e speranze non realizzatesi siamo riusciti a buttare alle ortiche anche le poche risorse di cui disponevamo dimostrandoci inadeguati all’ambito ruolo di grandi mediatori.Ma non tutto è perduto. Anche perché in Libia ci ha sempre salvato l’Eni vero garante dei nostri interessi economici nell’ex colonia e vero “secondo stato” capace di sopperire alle carenze strategiche dei nostri politici.