A dieci anni dalla caduta del regime libico di Gheddafi, sono molti gli indizi che conducono ad un’ulteriore spiegazione della pervicacia con la quale Parigi volle scatenare nel 2011 l’attacco al paese Nordafricano. Per l’allora inquilino dell’Eliseo Nicolas Sarkozy la necessità di tappare la bocca per sempre ad un imbarazzante creditore come il Rais, peraltro intenzionato a contrastare con una nuova moneta il Franco Cfa, e la volontà di limitare la presenza dell’Italiana Eni in Libia erano motivazioni già più che sufficienti. Ma nella corsa alla conquista di nuove fonti di approvvigionamento energetico l’attenzione non era rivolta soltanto al gas o al petrolio. L’obiettivo strategico dell’azione transalpina era, e rimane, il controllo dei giacimenti di uranio la cui esistenza sembra localizzata nei pressi di Murzuk e Kufra, nella parte meridionale della Libia. Le notizie sulla possibile presenza del prezioso metallo, ricercatissimo per sostenere i programmi nucleari civile e militare di Parigi, sono antiche e confermate da studi e fonti attendibili. L’area di interesse è in pieno deserto del Sahara, nelle zone a ridosso del confine con il Niger e il Ciad, al di qua della Striscia di Aozou, che delimita il confine con il Ciad e che non casualmente in passato è stato oggetto di una pesante disputa fra Tripoli e N’Djamena.
Un territorio apparentemente desertico e privo di risorse, collocato nella regione di Borkou-Ennedi-Tibesti, nel nord del Ciad lungo il confine con la Libia, nasconde in realtà notevoli depositi di uranio. Per questo motivo nel 1973 Gheddafi mise da parte trattative e ambascerie e diede la parola alle armi. Le sue truppe oltrepassarono la frontiera e scatenarono un lungo conflitto che culminò con l’occupazione e l’annessione di quel lembo di deserto alla Libia. Soltanto nel 1987 le forze armate del Ciad, con il supporto dalla Legione straniera francese, riuscirono a riconquistare la Striscia di Aozou che nel 1994 la Corte internazionale di giustizia assegnò definitivamente al paese centrafricano.
A nord della linea di confine, in pieno territorio libico, le oasi di Murzuk, nel Fezzan, e di Kufra, in Cirenaica, sono considerate dagli esperti potenzialmente ricche di giacimenti di uranio. Nell’agosto/settembre del 1981 “The bulletin of atomic scientists”, la prestigiosa rivista di studi sulla sicurezza globale e la minaccia nucleare scriveva: “La Libia ha profuso sforzi imponenti per la ricerca dell’uranio sul proprio territorio. Le potenzialità del territorio libico sono da tempo ritenute significative e nel corso degli anni sono stati diversi gli annunci di scoperte imminenti di depositi nel paese”. E ancora: “Ad esempio, alla Conferenza dei 18 paesi sui giacimenti di uranio in Africa, svoltasi nel novembre 1977, il Libyan atomic energy establishment definì elevate le probabilità di trovare uranio in Libia, citando il bacino di Murzuk (soprattutto la parte occidentale) e il bacino di Kufra tra i siti con le maggiori potenzialità”. Il riferimento è alla relazione pubblicata nel 1979 a Vienna dalla Iaea (International atomic energy agency) che riprendeva gli atti del convegno tenuto a Lusaka, in Zambia, due anni prima.
Nel documento, a pagina 181, nel capitolo dal titolo “Uranium exploration activities in libyan arab Jamahiriya”, è riportato l’abstract delle relazioni degli esperti A.A. El Maxhrouf e A.R. El Ghoudi del Libyan atomic energy establishment di Tripoli.
“In riferimento alla ricerca dell’uranio, i bacini dalle maggiori potenzialità sono i seguenti. Bacino di Murzuk – Si tratta di uno dei principali bacini libici. Occupando un’area di circa 600 X 1000 km, il bacino si trova racchiuso tra il massiccio dell’Ahaggar a ovest, i monti Tibesti a est e Gargaf a nord. I sedimenti che riempiono il bacino hanno uno spessore di 3300 m, essendo di facies marina paleozoica e, in misura maggiore, di facies mesozoica continentale. Uno studio sulla distribuzione delle paleocorrenti nel bacino di Murzuk, condotto da P.F. Burolpet e R. Byramjee, mostra che durante l’era paleozoica le paleocorrenti erano dirette principalmente a nord e a nord-est della zona del bacino. Inoltre, la presenza di depositi di uranio nei sedimenti carboniferi e giurassici in Niger – che sono correlati a quelli delle formazioni libiche corrispondenti – è indice di un’alta probabilità di rinvenire depositi di uranio nel bacino, specialmente nella parte occidentale (dove il massiccio di Ahaggar risulta essere la principale fonte del materiale). ll bacino di Kufra copre una vasta area di Al Jamaheria (500 X 900 km) e si estende anche in Egitto, Sudan e Ciad. I sedimenti che riempiono il bacino sono costituiti da 3000 m di rocce sedimentarie clastiche, di cui 1300 m del periodo paleozoico e 1700 m di età mesozoica. I sedimenti paleozoici sono costituiti da arenaria quarzifera e siltite, e siltite mista a shale e argille intercalate. I sedimenti paleozoici provenivano dal basamento cristallino dello Scudo africano. Si tratta di un ulteriore elemento a sostegno della alla teoria secondo cui le paleocorrenti viaggiavano in direzione nord; il che significa che vi sono buone possibilità di trovare quantità significative di uranio”.
Nella loro relazione gli scienziati libici individuavano anche altre aree potenzialmente ricche di uranio. “Oltre ai suddetti bacini principali che sono stati selezionati come siti prioritari per le operazioni di ricerca, – proseguivano gli esperti di Gheddafi – vi sono altre aree favorevoli. Il distretto di Ghat, che occupa un’area di circa 46.000 km² nella parte occidentale del bacino di Murzuk; il distretto di Jabel Ben Ghenima, che occupa un’area di circa 37.500 km² nell’estremità nord-occidentale di Tibesti; Jabel Eghi, che occupa un’area di circa 22.000 km² nell’estremità nordorientale di Tibesti; Jabel Awenat e Jabel Arekenu e la zona sedimentaria circostante, con un’area di 30.000 km²; l’area di Bir e Dikar, che occupa un’area di circa 20.000 km² a nord di Kufra; l’area di Gargaf (25.000 km²) e l’area di Hasy Dimbabah, circa 25.000 km², situata 175 km a sud-est di Ghadames. Secondo uno studio condotto da P.M. Vincent sull’evoluzione della provincia vulcanica di Tibesti, nel Sahara orientale, (in prossimità dell’area contesa della Striscia di Aozou, n.d.a.) e in base a un articolo inedito di Krason, anche Tibesti andrebbe sottoposta a studi approfonditi per la ricerca dell’uranio nelle caldere vulcaniche e all’interno delle rioliti, delle andesiti e delle trachiti” – concludevano gli scienziati libici.
L’area circostante il bacino di Murzuk era nuovamente citata e al centro di ricerche geologiche in un altro documento dell’Iaea di Vienna del 1985 dal titolo “Geological environments of sandstone-type uranium deposits – Report of the working group on uranium geology organised by the International atomic energy agency”. Alla relazione finale contenuta nel report, avevano lavorato gli esperti H.S. Assaf, H.S. Ageli, K.Hangari e B.O.Mehdi del Segretariato dell’energia atomica di Tripoli. “Fin dal 1973 numerose tracce uranifere sono state trovate lungo il fianco esterno del bacino di Murzuk, nel Sudovest della Libia” (…). E ancora: “Le tracce di mineralizzazioni di uranio sono state trovate in due livelli di arenaria per un’ampiezza di 100 chilometri con direzione nord-sud” (…).
Della probabile presenza di giacimenti di metallo radioattivo e potenzialmente utilizzabile dalla leadership libica, si è occupato nel 2011 anche il sito “Nti” dell’organizzazione internazionale “Nuclear threat initiative”, ritenuta molto autorevole nel settore degli studi geopolitici e della sicurezza globale e il cui board è composto da esperti internazionali. “Al momento, non vi sono prove dell’esistenza, in Libia, di impianti per l’estrazione, la lavorazione e la conversione di uranio, nonché di impianti di trasformazione del combustibile o siti di riprocessamento. Se la Libia dovesse intraprendere in futuro attività di estrazione di uranio, questa riguarderebbe probabilmente i bacini di Murzuk, di Sarir Tibisti e di Kufra”.
Tutto questo è più che sufficiente per ingolosire la Francia, potenza nella quale oltre il settanta per cento dell’energia elettrica è prodotta da ben 58 centrali nucleari e che possiede un arsenale atomico di tutto rispetto. Per l’approvvigionamento di uranio finora Parigi ha potuto contare sulle miniere del Niger, il quarto produttore al mondo dopo Kazakistan, Australia e Canada. Oltre settemila militari francesi sono schierati nella cosiddetta “Francafrique”. Distribuiti tra gli ex possedimenti coloniali di Senegal, Mauritania, Gabon, Costa d’Avorio Burkina Faso, Niger, Mali, Ciad e Centrafrica, i soldati transalpini sono chiamati a difendere la stabilità dei paesi dell’area del Franco Cfa minacciati dall’offensiva fondamentalista, ma rappresentano plasticamente l’ipoteca di Parigi sulle risorse minerarie della regione.
Dal Niger, in particolare, proviene oltre il trenta per cento dell’uranio necessario al fabbisogno francese. Nella regione nordorientale di Agadez, nei pressi di Arlit e Akokan, si trovano due dei più grandi siti minerari del Pianeta. A fare la parte del leone è da decenni la multinazionale transalpina Areva (dal 2017 rinominata Orano a seguito di un processo di ristrutturazione industriale) collegata alle società locali Somair e Cominak. Ma già a partire dal 2007 Parigi ha dovuto fare i conti con la lenta ma progressiva penetrazione cinese nel paese africano e nel 2014 le due miniere sono state al centro di complesse e tormentate trattative tra il governo nigerino e Areva.
Niamey ha contestato il rapporto di forza con la multinazionale facendo parlare i numeri. “L’uranio rappresenta il 70 per cento delle esportazioni del Niger ma contribuisce soltanto al 5 per cento del Pil, oltre ad aver causato negli ultimi decenni gravi danni ambientali e alla salute dei lavoratori locali” – è stata in sintesi la principale contestazione del governo africano, secondo il quale negli ultimi 40 anni solo il 13 per cento del valore globale del prezioso metallo esportato sarebbe finito nelle casse del Niger. Alla fine, l’accordo tra le parti per la proroga delle concessioni scadute nel 2013, è stato siglato a condizione che la quota del valore dell’uranio estratta dalle miniere del Nord aumentasse dal 5,5 al 12 per cento. Ma da allora la posizione della Francia in Niger non sembra solida come prima. Le proteste crescenti delle popolazioni Touareg minacciate dall’inquinamento sulle quali soffia il vento della jihad islamica, l’insofferenza del governo per le condizioni di un rapporto che comincia a stare stretto e la concorrenza di Pechino, suggeriscono a Parigi di cercare alternative.
Ecco perché la Libia rappresenta una opportunità irrinunciabile per gli interessi francesi. Con la eliminazione di Muammar Gheddafi, l’Eliseo ha stoppato il progetto preparato dal Colonnello di immettere in tutta l’Africa una nuova valuta, il dinaro d’oro, da utilizzare in risposta al Franco Cfa. Scelta che rappresentava una minaccia esistenziale palpabile alle banche centrali nel cuore del sistema finanziario e politico occidentale (come rivelato all’inizio del 2016 in una delle più di 3.000 email di Hillary Clinton rilasciate dal Dipartimento di Stato). Ma parallelamente ha ridimensionato il ruolo di leadership che l’Italia manteneva da anni nel paese nordafricano e grazie all’appoggio al generale Kalifha Haftar, ha esteso la sua influenza soprattutto sulla Cirenaica, un’area ricca di risorse. I giacimenti di idrocarburi sono noti e fanno gola a molti, ma non sono l’obiettivo primario di Parigi. Lontano dal mare, dai grandi centri costieri e dai complessi petroliferi, come riportato nella relazione del Centro alti studi per la Difesa e Centro militare di studi strategici dal titolo “Influenza geopolitica della Libia nel bacino del Mediterraneo” (68ª Sessione di studio per l’anno accademico 2016/2017), la Francia ha già da tempo sguinzagliato i suoi tecnici. Nelle remote propaggini meridionali di Fezzan e Cirenaica gli uomini di Macron setacciano il deserto del Sahara alla ricerca dell’uranio di Murzuk e Kufra.
Da Nova Historica, gennaio 2021