Sono andate deluse le aspettative di chi, ad iniziare dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, si attendeva una forte presa di posizione di Donald Trump sulle questioni che minano la sicurezza del Mediterraneo, stabilizzazione della Libia e migrazioni di massa in primis. L’incontro tra il presidente statunitense ed il premier italiano, invece, ha rimarcato, al di là delle apparenze e delle dichiarazioni formali, la profonda distanza che separa le due sponde dell’Atlantico su questi temi fondamentali per l’Italia.
Sul dossier Libia, su cui gli Stati Uniti hanno sempre giocato un ruolo un po’ defilato, Trump è stato pronto a sottolineare di “non vedere alcun ruolo per gli Usa”. Una doccia gelata per Gentiloni che puntava, invece, ad ottenere maggior impegno statunitense nella politica di sostegno al governo Serraj, l’unico internazionalmente riconosciuto, ma la cui reale autorità si limita alla città di Tripoli o poco più.
L’Italia da tempo è il più attivo sponsor di Serraj, tuttavia il reale peso politico del leader libico è minimo, come dimostrano i progressi militari dell’uomo forte del governo rivale di Tobruk, il generale Haftar, ed il caos che regna nella fascia sahariana controllata dalle tribù. E se è vero che grazie al ministro Minniti l’Italia ha iniziato a dialogare proficuamente anche con gli altri attori della scena libica –incluso Haftar, sostenuto apertamente dalla Russia- resta evidente come senza un più deciso intervento la soluzione della crisi libica resti un miraggio. Serraj era e resta un cavallo zoppo.
Di qui la speranza del governo italiano di strappare a Trump l’impegno ad un maggiore coinvolgimento Usa, richiesta respinta al mittente. Difficile, dunque, che Roma possa andare oltre quello che sta già facendo: sostegno discreto, anche con la presenza di forze speciali, al governo Serraj, prosecuzione dell’attività dell’ospedale militare che cura i feriti dell’esercito di Tripoli, dialogo con Haftar e con le tribù dell’interno. Ma senza l’ombrello Usa ogni ipotesi di rafforzare la presenza italiana in Libia resta una mera chimera. Del resto oltre alla mancanza di una volontà politica in tal senso, mancherebbe probabilmente all’Italia anche la possibilità pratica di dispiegare un contingente militare “robusto” così come richiede la situazione sulla Quarta Sponda.
Già quando sotto la presidenza Obama l’Italia, allora guidata da Matteo Renzi, chiese un maggiore ruolo nella gestione della crisi libica la risposta che giunse da Washington fu tale da frustrare presto le ambizioni di Roma: massima disponibilità a lasciare all’Italia la guida dell’impegno internazionale a Tripoli, ma in cambio di un adeguato impegno militare. Si parlò all’epoca di 5mila militari da dispiegare nel paese nordafricano, per poi non farne nulla, dopo ripetute smentite e precisazioni del ministro della Difesa Pinotti. Ma anche in quel caso furono in molti a dubitare della reale possibilità per l’Italia di mettere in campo una simile forza, considerati gli altri impegni militari cui è chiamato il Paese. E, soprattutto, vista la politica della lesina che da tempo caratterizza la politica dei governi italiani sul fronte difesa.
E qui Gentiloni ha incassato il secondo colpo in occasione dell’incontro con Trump. Il presidente statunitense ha chiesto, infatti, al presidente del Consiglio italiano di portare la spesa per la difesa al 2% del pil. Richiesta coerente con la visione della presidenza Usa di far ricadere il peso della politica di difesa dell’Europa sempre più sugli alleati europei, spostando uomini, mezzi e risorse statunitensi verso altri settori. Alla richiesta del presidente Trump Gentiloni ha replicato non senza qualche imbarazzo, evitando di assumere impegni precisi.
Insomma, la trasferta americana del presidente del Consiglio non può certo considerarsi un successo: nessun impegno concreto sulla Libia, tranne riconoscere un generico sostegno all’azione italiana ed al suo ruolo di leadership nella vicenda, e distanza notevole su come affrontare il problema immigrazione. Per Trump, infatti, “confini forti sono una componente vitale della sicurezza”. Peccato che i confini italiani tutto siano tranne che forti. E per una precisa scelta politica.
Dopo il vertice di Washington, dunque, l’impressione è che l’Italia si trovi ad essere un po’ più sola nella gestione delle crisi che più la riguardano. In Libia, in particolare, ogni attore –inclusi gli altri paesi europei- continua a giocare la propria partita, badando al proprio esclusivo interesse. E l’Italia è chiamata a gestire una crisi che non ha mai voluto, ma a cui –giusto sottolinearlo- non ha mai avuto la forza politica di opporsi. Neanche quando si è fatta carta straccia dei trattati di amicizia ed alleanza stipulati con Gheddafi, all’epoca legittimo rappresentante dello stato libico. Forse un peccato originale che Roma continua a pagare, nel disinteresse –quando non nella malcelata soddisfazione- di alleati vicini e lontani.