Questa manovra sullo scacchiere mediterraneo non deve nemmeno essere interpretata unicamente come tentativo di Washington di evitare che in Libia si ripeta una crisi come quella che ha portato, l’11 settembre 2012, alla morte dell’ambasciatore Christopher Stevens.
No, la mossa ha un sapore squisitamente di politica interna. Americana, non nostrana. L’annuncio del trasferimento dei marines (e di qualche unità delle forze speciali) giunge al termine di una settimana difficile per l’amministrazione Obama.
Nei giorni scorsi infatti è riaffiorato uno scheletro che già aveva perseguitato il presidente verso il voto di novembre: quello dell’attentato a Bengasi, per il quale la Casa Bianca era stata accusata di aver lasciato soli i propri uomini durante l’attacco e di non aver fornito tutto il supporto necessario. Tentando poi di minimizzare l’accaduto a scopi elettorali.
A far tornare a galla lo scandalo è stata l’audizione al Congresso del numero due della missione diplomatica in Libia, Gregory Hicks che, sull’orlo delle lacrime, ha testimoniato come quell’infausta notte alle forze speciali fosse stato esplicitamente vietato di recarsi a Bengasi a soccorrere i connazionali sotto attacco.
Per aggiungere sale sulle ferite, la Abc ha pubblicato il litigio via e-mail tra Cia e dipartimento di Stato sul modo in cui presentare l’attentato alla stampa. Nella fattispecie, il dicastero allora guidato da Hillary Clinton ha insistito per eliminare ogni riferimento ai responsabili dell’attentato, che si riteneva appartenessero a una milizia legata ad al-Qa’ida. Mossa poi interpretata dai repubblicani come tentativo di spazzare la polvere sotto il tappeto e non ammettere che i qaidisti erano lungi dall’essere sconfitti, contrariamente a quanto andava affermando il presidente in campagna elettorale.
Proprio in questi giorni, Obama era a caccia di appigli per alleviare la pressione su di sé. L’accerchiamento era così stretto che si è dovuto riesumare un ex del calibro di Robert Gates, fino al 2011 capo del Pentagono, autore di un’inconsueta quanto significativa apparizione in un talk show. “Fossi stato in carica all’epoca dell’attentato, avrei preso le stesse identiche decisioni dell’amministrazione”, s’è speso Gates in difesa di Obama. “Visto il numero di missili terra-aria spariti dagli arsenali di Gheddafi, non avrei approvato l’invio di un aereo, di un singolo aereo, a Bengasi in quelle circostanze. E mandare delle forze speciali sul campo […] senza conoscere quale sia la minaccia […] sarebbe stato molto pericoloso”.
Schierare un contingente militare in una base dirimpettaia al calderone libico fornisce un altro assist alla Casa Bianca. Con Roma, l’amministrazione aveva già cercato negli ultimi mesi questo accordo. Tuttavia, lo stallo politico-istituzionale che ha attanagliato il nostro paese per due mesi dopo le elezioni lo ha ritardato non poco. Gli emissari statunitensi si erano scontrati col rifiuto del governo Monti, ormai ridotto a sbrigare solo le pratiche quotidiane, di discutere il tema prima della formazione di un nuovo esecutivo in grado di assumersi la responsabilità di una tale decisione.
Così il Pentagono s’era accontentato di negoziare con la Spagna la dislocazione per almeno un anno nelle sue basi di circa 500 marines, più alcune unità dei Navy Seals, le forze speciali che hanno eliminato Bin Laden. Con l’evidente idea di distaccare una parte di questo contingente, non appena un nuovo e accondiscendente governo si fosse insediato a Roma.
Un’interpretazione geopolitica dello schieramento dei militari a stelle e strisce a Sigonella è tuttavia possibile. Questa mossa costituisce un primo importante ridimensionamento di un progetto che Washington coltivava per il continente africano. Sin da inizio 2012, il Pentagono aveva cominciato a inviare piccoli team di forze speciali nei vari paesi a sud del Mediterraneo, specie in Nordafrica e nella fascia sahelo-sahariana. Con l’obiettivo di creare una rete in grado di mettere le Forze armate regolari nelle condizioni di rispondere in autonomia alle minacce locali. Un simile sforzo era stato tentato anche in Libia, per la quale l’amministrazione aveva chiesto 8 milioni di dollari per addestrare 500 truppe speciali.
L’arrivo dei marines in Sicilia dimostra che, di fronte alla progressiva polverizzazione della Libia in una guerra civile a bassa intensità, la Casa Bianca ritiene di dover mutare l’approccio. Quando non solo il governo ma anche un esercito regolare evapora, l’opzione di affidarsi a piccole squadre di forze speciali si dimostra insufficiente. Ed è richiesta una risposta militare più convenzionale. Di stanza a Sigonella.
di Federico Petroni – Limes , 15 maggio