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Il linguaggio inclusivo dei discepoli dell’egualitarismo

di Francesco Marotta
15 Dicembre 2017
in Home, Società&Tendenze
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Il linguaggio inclusivo dei discepoli dell’egualitarismo
       

 

 

Quello che è difficile da digerire, sono le imposizioni di una minoranza che decide di dedicarsi interamente ad un orientamento, un gusto, una fede religiosa, da cui estrapola dei dogmi messi maggiormente in evidenza a seconda delle esigenze o necessità, legittimati con l’uso strumentale del diritto ad un’intera popolazione.

I propugnatori del «linguaggio inclusivo» che incentiva lo sradicamento linguistico delle popolazioni, presente nei cerimoniali dell’ideologia dei diritti, del ribaltamento dell’educazione, dell’informazione- deformazione, della cultura/de-culturalizzata, nella riproposizione di un femminismo massimalista concentrato sull’omofobia in un Occidente già svirilizzato e femminilizzato (Éric Zemmour, “L’uomo maschio”, Editore Piemme, anno 2007), determinano una tendenza in uso che ha delle specifiche agghiaccianti.

L’insieme delle applicazioni, sciorinate secondo i tempi delle lobby pressanti, disgraziatamente, passano in secondo piano. Quanto meno è così, anche per coloro che credono di essersi accollati l’onere di ribaltare la situazione, che, ben contenta, sfugge alla “rapidità” di una chiocciola da riproduzione, perché ha tutta la durata necessaria per deteriorarsi ulteriormente. Ma allora è una questione di intenti e propositi reali, del non riuscire a comunicare per chi non ci sta al gioco? Oppure, è colpa della dipendenza ad un linguaggio dotato di una nuova configurazione? Il problema è già stato risolto a monte: l’ultima frontiera da abbattere, quella del linguaggio inteso come il complesso e la trasmissione da una generazione all’altra, del modo di esprimersi che è la caratteristica propria di determinati popoli e dell’ambiente sociale/cognitivo, è caduta da un pezzo.

L’inclusività che dicono sia necessaria come l’aria che respiriamo, cioè quel che dovrebbe «comprendere in sé qualcosa» e non un qualcosa che pensa di comprendere il tutto, usa lo stesso linguaggio che usiamo noi. È corretto dire che siamo noi ad aver assimilato questo tipo di linguaggio. Giustamente, molti si chiederanno che cosa sia questo «linguaggio inclusivo» e quali siano le sue caratteristiche. Tanto per cominciare, lo scrittore e critico letterario britannico Sir Michael Edwards, nell’intervista rilasciata a Philitt, la Rivista di filosofia e di letteratura on-line (https://philitt.fr, leggasi “Michael Edwards : « La langue inclusive est un bégaiement cérébral »”), rende noto che «ha fatto la sua apparizione in modo ufficiale nel 2015, quando l’Alto Consiglio per l’uguaglianza tra gli uomini e le donne ha pubblicato una guida per “una comunicazione pubblica senza stereotipo di sesso” ».

Insomma, la querelle della Fedeli che vuole esser chiamata “Ministra” e non Ministro, l’uso del «femminile» che la Boldrini non manca mai di sottolineare, “Presidenta”, “Sindaca”, l’obbligo dell’ingresso alla Camera dei Deputati con i tesserini che specificano l’impronta di genere e via discorrendo, non nascono dalle bizze di diverse rappresentanti del gentil sesso. Questo tipo di linguaggio, verrà insegnato a scuola. Possiamo dire che M. Edwards, coglie nel segno e fa un po’ di chiarezza sui possibili risultati dell’idiosincrasia di un nutrito e variegato gruppo di pressione che influenza pure la politica, a discapito delle future generazioni: «perderanno l’abitudine di leggere ascoltando ciò che leggono. I collegamenti tra linguaggio, suoni e ritmi saranno interrotti».

A storpiare la grammatica (Vittorio Sgarbi qui ha ragione) per elevare le caratterizzazioni dell’una a discapito dell’altra, come abbiamo detto, sono un insieme di lobby separate ma alcune volte accorpate, che nulla c’entrano persino con le rivendicazioni dell’essere uomo, donna o chicchessia. Ne è un esempio il caso di Cherry Kittredge, pastore della Federazione Internazionale delle chiese MCC (Metropolitan Community Church), un’associazione di congregazioni di orientamento protestante. Nel 1979, viene redatto un rapporto ed un successivo opuscolo esemplificativo che spiegava, quali fossero le linee guida e la traiettoria da seguire per l’uso di questo tipo di linguaggio.

Secondo la Kittredge, il «linguaggio inclusivo» deve far parte del quotidiano per il motivo che «l’utilizzazione tradizionale di un linguaggio non inclusivo allontanerebbe certe persone dalla chiesa», dichiarando apertamente il suo amore per l’universalismo egualitario e di conseguenza, per l’utilizzo di questa tipologia di linguaggio. Uno delle motivazioni principali è il superamento degli «ostacoli che sbarrano l’accesso all’uguaglianza» ed alla «libertà di apprendere e di comunicare una visione più ampia della verità», citando a giustificazione della sua tesi l’apostolo Paolo di Tarso e la “Prima lettera ai Corinzi” … (“Il linguaggio inclusivo: perché e come?”, anno 2009, www.giornata.org, “Progetto Giornata, portale su fede ed omosessualità”).

Però, quello che non viene messo in discussione da un linguaggio simile, è senza dubbio la volontà di eliminare, linguisticamente, la distinzione delle definizioni biologiche, delle neuroscienze e persino filosofica delle differenze sostanziali tra l’uomo e la donna, estendibile a qualsiasi tipologia di soggetto. Puntando tutto sui contenuti teorici della parificazione ed escludendo a priori, la natura delle cose a vantaggio della realizzazione personale. Il linguaggio inclusivo, contrariamente a quello che vuole dimostrare, annulla le evidenze di genere con la scusante del rischio di perdere troppa individualità. Chissà come mai la “papessa” dello Stato dell’Iowa si guardò bene dal dirlo.

Tutto il resto è anni dopo, giudicato obsoleto, offensivo e volgare, privilegiando uno schema del linguaggio che destruttura una realtà propriamente detta, sostituita da una realtà “inopinabile” e da una identità ridisegnata su di un ipotetico avvantaggiamento culturale. La nevrastenia del cambiamento e del progredire di ognuno, della riformulazione del linguaggio avvalendosi della neutralità dei termini e della trasformazione delle formulazioni tipiche, purtroppo ha raggiunto l’apice. Cosa che francamente, ora, comincia un po’ stancare. Non trovate?

Tags: Eric Zemmourlingua italianaVittorio Sgarbi
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