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Home L'Editoriale

L’Italia non è un paese per giovani?

di Mario Bozzi Sentieri
23 Gennaio 2023
in L'Editoriale
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L’Italia non è un paese per giovani?
       

Scriveva Abel Bonnard, poeta, romanziere e saggista francese, attivo nella prima metà del Novecento: “La gioventù di un grande Paese in tempi felici riceve esempi, in tempi di crisi li dà”. Mai come oggi c’è bisogno di “esempi”, immersi come siamo nell’interregnum di gramsciana memoria, un tempo in tensione tra un passato che non vuole morire ed un futuro che non riesce a nascere, un tempo in cui molto va ridiscusso e ricomposto. Un vecchio mondo è al tramonto, con le sue facili illusioni globaliste, egualitariste, taumaturgiche. Politica, economia, tenuta sociale, cultura dell’appartenenza sono in discussione, su nuove basi. Con forti domande identitarie, nuove suggestioni tecnologiche, orizzonti post industriali, aspettative di sintesi.

Rispetto a questo “quadro” dove stanno le giovani generazioni? Di giovani si parla a “corrente alternata”, ma senza grandi slanci. Essi stessi paiono poco convinti del loro ruolo e delle loro potenzialità, rinserrati – come sono – nelle percentuali sulla disoccupazione, nella precarietà diffusa, nella fuga dalle Università, nella condizione di eterni ragazzi (fino a trent’anni ed oltre) al seguito di genitori protettivi.

D’altro canto – sondaggi alla mano –  i giovani appartenenti alla fascia d’età seguente, quella dei  ventenni,   hanno  voglia di “esserci”, ma sono anche “preoccupati” rispetto ad un futuro tutto da costruire (e non solo per loro). Hanno voglia di fare ed hanno forti aspettative, anche se non mancano i Neet, acronimo di Not in Education, Employment or Training, in sintesi chi non è impegnato nello studio, né nel lavoro e neanche nella formazione.

Il ricambio generazionale stenta a mettersi in moto: l’invecchiamento della popolazione e la  crisi demografica condizionano non poco, mentre il rischio per i giovani di essere più poveri dei loro genitori è  purtroppo un dato che appare  consolidato. Le ricadute non sono “solo” economiche, nella misura in cui questa percezione può portare ad una sorta di “spossatezza” generazionale, di preoccupazione per il futuro che si fa frustrazione e quindi “diserzione” rispetto alle responsabilità presenti. I passaggi tradizionali dell’esistenza (“la fine degli studi”, “l’inizio di un lavoro”, “la formazione di una nuova famiglia” e “la nascita del primo figlio”) appaiono in crisi e – al momento –  non paiono avere prodotto  fondate alternative.

Ciò che manca   – in questa fase – è innanzitutto la consapevolezza generazionale: il senso di un’appartenenza in grado di proporre modelli, di mobilitare energie, di sfidare l’oggi e soprattutto il domani, di farsi esempio.  

Il mito dell’impegno (politico, sociale, culturale) è sbiadito e perduto. “L’epoca delle passioni ribelli è diventata un’epoca di passioni tristi” – ha notato il pedagogista cattolico Daniele Novara. Ci si occupa di cambiamenti climatici, ma senza troppa convinzione e soprattutto senza riuscire a “sfondare” nell’immaginario collettivo.

La percezione è di una netta cesura tra i giovani ed il sistema Paese, con conseguenze che – in prospettiva – rischiano di aumentare le fasce degli esclusi, degli “inghiottiti” dall’inedia, a causa di  un corpo sociale sempre più debole e sfilacciato, visti  la perdita di ruolo e di certezze autentiche offerte dalle famiglie (con  una lunga e paradossale  dipendenza dei figli adulti dai genitori),  l’avanzare dei processi di disintermediazione, a seguito del  depotenziamento dei corpi intermedi (ed il sostanziale isolamento sociale), la precarietà (resa palese dal  lavoro in  nero).

Essere consapevoli di questa realtà, non proprio esaltante, è un primo passo per uscirne.  A partire dalla scuola, dai processi formativi, dagli incentivi sociali lo Stato può fare la sua parte. Ma la questione ha anche risvolti antropologici, culturali, di “visione della vita e del mondo” da non sottovalutare, nella misura in cui i pensieri di oggi sono le azioni di domani. In questa prospettiva c’è bisogno di una vera e propria rivoluzione culturale a cui richiamare proprio le giovani generazioni.

Il riconoscimento dei meriti è il primo passo per garantire il libero sviluppo della personalità e l’autentica “liberazione” dei giovani. Tramontato il tempo dell’”individuo sociale”, caro a certa cultura macchinistico-industrialista, è la mobilità sociale, l’aggiornamento permanente, l’innovazione a segnare la nuova “filosofia del lavoro”. Ed è dunque rispetto a questa nuova filosofia che è necessario riparametrare una cultura ed i modelli organizzativi che intorno ad essa vanno emergendo.

Questo introduce un nuovo dato: la partecipazione. Essere partecipi, fare parte, sentirsi parte di un progetto, è la grande (irrealizzata) aspettativa giovanile, un’aspettativa che – sia chiaro – non ha niente di massificante, non può essere comprata a colpi di sussidi di disoccupazione, ma che si coniuga con il diritto alla meritocrazia, con il riconoscimento dei talenti individuali, con la pienezza di un avvenire autentico.

Un discorso di qualità dunque e di valore, quello che bisogna sapere leggere tra le pieghe del vissuto giovanile, molto più concreto di quanto non dicano certi stagionati guru “progressisti” e, nello stesso tempo, pronto ad accettare le sfide del cambiamento, intorno a cui si giocano le sorti del Paese. Bisogna però parlarne. Bisogna affinare sensibilità e modalità d’intervento, chiamando ciascuno a fare il proprio dovere, mettendo in campo le doverose contromisure, anche comunicative.  In gioco, insieme a quelli dei giovani, ci sono i più ampi destini nazionali e quindi il diritto ad un domani, pieno e consapevole. Per tutti.

Tags: giovaniscuola
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