«La verità sul caso Giulio Regeni? Non la sapremo probabilmente mai». Sergio Romano dice che l’Italia si è comportata sin qui «come avrebbe dovuto», invita il governo a tenere aperto il canale del dialogo con l’Egitto dopo il richiamo dell’ambasciatore, si dice convinto, anzi, che «non si arriverà alla rottura perché non conviene a nessuno». Ma non nasconde che una soluzione che salvi le ragioni della giustizia è difficile da immaginare. Dal diplomatico vicentino, una lunga carriera che l’ha visto all’ambasciata d’Italia a Londra, primo consigliere a Parigi e quindi ambasciatore alla Nato e a Mosca, quando ancora c’era l’Unione Sovietica, arriva soprattutto un netto richiamo al realismo. Si deve tener conto del fatto che, se da un lato l’Italia chiede legittimamente venga fatta luce sulla tragica uccisione di un suo giovane ricercatore, dall’altro c’è un paese «dalla democrazia imperfetta» che ha la necessità di proteggere uomini di cui ha bisogna in questa fase di lotta contro il fanatismo islamico.
Sergio Romano, si aspettava che dal vertice tra le due polizie non emergesse un solo risultato concreto?
È un finale a cui il governo italiano si era preparato e in un certo senso condannato. Avendo più volte sollecitato l’Egitto a fornire precise informazioni e indicazioni su quanto è realmente accaduto a Giulio Regeni, una volta preso atto che non sarebbero arrivate, nonostante le ripetute rassicurazioni del Cairo su indagini indipendenti e scrupolose, Roma doveva dare un segnale di protesta. E lo ha fatto con la prima delle reazioni ostili in un litigio diplomatico, il richiamo dell’ambasciatore.
Un comportamento, dunque, all’altezza della situazione?
In queste circostanze vanno tenuti d’occhio vari fattori contemporaneamente. Con la premessa che i rapporti con uno Stato prescindono dai casi isolati. Quelle con l’Egitto, politicamente ed economicamente, sono relazioni molto importanti, non è pensabile che il governo le ignori e infatti non lo ha fatto. Ma si è trattato anche di tenere conto dell’indignazione della pubblica opinione su questa vicenda. La pubblica opinione è fatta di cittadini elettori. Un governo che non se ne ricorda è un governo che prima o poi ne subirà le conseguenze. Dovendo conciliare considerazioni di così diversa natura, Roma ha cercato prima, insistentemente, di ottenere quanta più verità possibile e si è infine mossa come aveva implicitamente promesso di fare.
Come giudica invece il comportamento egiziano?
Non mi sorprende. Gli egiziani sono persone intelligenti, sanno come va il mondo e come l’Europa sia particolarmente attenta a certi valori. Cercano quindi di non entrare in rotta di collisione con Paesi con cui hanno rapporti consolidati. Ma la loro è sempre stata una democrazia imperfetta. E ora che i militari, sempre comunque molto importanti in passato, hanno addirittura messo al vertice il loro principale esponente, è irrealistico pretendere un perfezionamento democratico proprio in questa fase. E proprio dai militari. Senza dimenticare che, alle spalle, c’è stato un colpo di Stato, con la conseguenza che la classe politica che è stata scalzata e gli ambienti con radici religiose musulmane che vi appartengono hanno reagito in maniera decisa. Insomma, se non ancora in guerra civile, l’Egitto ci è abbastanza vicino. Nello stesso momento in cui, in Sinai, una guerra la sta combattendo davvero. In quell’area ci sono scontri a fuoco importanti. E non si può trascurare un episodio come quello che ha visto abbattuto un aereo russo. Un quadro che impone la presenza forte dei servizi di sicurezza.
Lo impone fino ad accettare che venga ucciso in quel modo un ricercatore straniero?
I servizi di sicurezza hanno metodi che non sono necessariamente democratici. In qualche caso chiedono, e molto spesso lo ottengono, pure la licenza di andare al di là della legalità. Questo è il problema. Non è così facile per Al Sisi raccontare all’Italia quanto è successo.
Difficile dunque immaginarsi che emerga infine la verità sul caso Regeni?
Supponendo che le cose siano andate secondo la peggiore versione possibile, e cioè che il ragazzo italiano sia stato torturato e ucciso dai servizi di sicurezza locale, è lecito supporre che il governo egiziano faccia fatica a sacrificare delle persone da cui in qualche modo dipende. Possiamo deplorarlo, ma dobbiamo capire che sarà quasi impossibile convincerli a fare altro.
Le ragioni di Stato prevarranno dunque su quelle della giustizia?
Non sappiamo come finirà questa vicenda. L’unica certezza è che, prima o dopo, finirà. Ci sono troppi interessi, da una parte e dall’altra. Interessi anche comuni, a partire dalla lotta al fanatismo islamico, su cui certo l’Egitto non è un nostro nemico posto che la minaccia è la stessa per loro come per noi.
Non crede dunque che si arriverà alla rottura delle relazioni?
Il richiamo dell’ambasciatore è senz’altro una dimostrazione di malumore, ma non è la rottura dei rapporti diplomatici, che significherebbe la chiusura dell’ambasciata. Sono convinto che nessuno dei due arriverà a quel punto, perché sarebbe la peggiore delle chiusure. Significa non parlarsi. O parlarsi di nascosto. Non conviene né all’uno è all’altro.
L’Italia si dovrà quindi accontentare di una verità di comodo?
Ci sono formule di compromesso che qualcuno magari sarà capace di inventare. Per fortuna la realtà, che ha più fantasia di quanta ne abbiano gli uomini, a volte ci stupisce. Ma fatico a immaginare che l’Egitto metta nelle mani dell’Italia il suo capo di sicurezza. Non mi aspetto nemmeno che si limiti a esporlo a una responsabilità pubblica processandolo in Egitto.
Marco Ballico, Il Piccolo, 9 aprile 2016