La fragile impalcatura statuale bosniaca – vero e proprio Frankenstein assemblato nel laboratorio diplomatico di Dayton – rischia di non sopravvivere all’ennesima crisi che da mesi agita i Balcani. Il complesso meccanismo istituzionale che regola il funzionamento dello stato – composto dalla Federazione croato-bosniaca e dalla Repubblica Serba – rischia di bloccarsi a causa delle richieste di maggiore autonomia da parte della Republika Srpska. O meglio, di Milorad Dodik, membro serbo della Presidenza tripartita della Bosnia Erzegovina e leader dell’Unione dei socialdemocratici indipendenti (Snds).
Dodik, in particolare, ha annunciato l’intenzione di restituire alla Republika Srpska una serie di competenze trasferite alle istituzioni centrali bosniache, dalla riscossione delle tasse al controllo delle dogane alla gestione dei servizi d’informazione (giusto per citarne alcune). Come se tutto ciò non fosse sufficiente, attraverso l’emanazione di oltre un centinaio di provvedimenti legislativi si vorrebbe dar vita, di fatto, ad una serie di istituzioni parallele a quelle bosniache. Forze armate comprese.
La crisi era esplosa già nello scorso mese di luglio, quando le forze politiche serbe hanno deciso di boicottare i lavori delle istituzioni centrali in segno di protesta contro la decisione dell’ormai ex Alto Rappresentante Valentin Inzko di introdurre una norma penale che punisce con la reclusione fino a 5 anni chi nega il genocidio di Srebrenica. Scelta altamente divisiva – come prevedibile – quella del diplomatico austriaco, che ha portato ad un preoccupante aumento della tensione.
Del resto non sono solo i serbi di Bosnia a guardare in prospettiva alla dissoluzione della Bosnia nata dagli accordi di Dayton. Anche all’interno della Federazione croato-mussulmana i rapporti non sono idilliaci, con Zagabria che, silenziosamente, osserva con attenzione l’evoluzione della situazione bosniaca. Non sono pochi quelli che – in Croazia come nei cantoni croato-bosniaci – pensano che il destino dell’Erzegovina sia quello di ricongiungersi alla madrepatria. Prospettiva che potrebbe portare i croati ad un’inedita convergenza con i “nemici” serbi.
Del resto che una possibile dissoluzione dello stato nato nel 1995 a Dayton non sia più un tabù lo conferma il “non paper” (un documento non ufficiale) diffuso, tra fine febbraio ed inizio marzo, in seno al Consiglio Europeo. Attribuito al primo ministro sloveno Janza (che ne ha prontamente smentito la paternità), il documento ipotizza la “dissoluzione pacifica” della Bosnia Erzegovina in stati mono-etnici. In particolare la Republika Srpska sarebbe assorbita dalla Serbia, i cantoni croati della Federazione migrerebbero verso Zagabria, mentre quel che residuerebbe andrebbe a costituire lo stato bosgnacco. Ma il “progetto non progetto” va ben oltre i confini bosniaci: il “non paper”, infatti, prevede anche il passaggio di Kossovo e aree della Macedonia del Nord sotto la sovranità albanese.
E proprio da Tirana arrivano prese di posizione che rischiano di innescare ulteriori tensioni nella penisola balcanica. Alla fine di novembre, al termine di un incontro intergovernativo tra Albania e Kossovo, il primo ministro albanese Edi Rama ha dichiarato di essere favorevole all’unione tra i due Paesi in caso di referendum. La presa di posizione di Rama – certamente non casuale – fa seguito a ben più concrete iniziative messe in atto nei mesi scorsi, in particolare alla sottoscrizione di accordi che hanno reso poco più che simbolico il confine tra Albania e Kossovo per merci e persone, mentre sul tavolo c’è il progetto di un collegamento ferroviario tra Durazzo e la capitale kosovara.
Comprensibili l’irritazione e la preoccupazione con cui, da Belgrado, si segue l’evoluzione dei rapporti tra le due nazioni albanofone, le cui popolazioni (stando ai sondaggi) vedono con ampio favore un referendum per l’unificazione. Sul tavolo, però, ci sono il mancato riconoscimento serbo dell’indipendenza kosovara e, soprattutto, l’incerto destino del Kossovo settentrionale a maggioranza serba. L’accordo di Bruxelles del 2013, che avrebbe dovuto portare alla nascita di un ‘associazione delle municipalità serbe, è rimasto lettera morta, mentre la recente “guerra delle targhe” – originata dalla decisione kossovara di ritenere non valide le targhe serbe delle auto in ingresso nel Paese – ha portato ad un forte innalzamento della tensione, con tanto di schieramento di forze militari al confine.
Insomma, se da un lato gli albanesi temono che nel Kossovo settentrionale possa nascere una Republika Srpska in miniatura, dall’altro per i serbi è inaccettabile un “grande Albania” in assenza di specifiche tutele per la comunità serbo-kossovara. O, magari, di qualche ritocco ai confini. Sì, perché il “non paper” attributo alla Slovenia contempla anche la possibilità di aggiustamenti di confine – a favore di Belgrado – con Montenegro e Macedonia del Nord (altro Paese in cui negli anni scorsi la minoranza albanese ha dato vita ad una guerriglia separatista).
La soluzione dell’infinita crisi balcanica potrebbe dunque essere una ridefinizione dei confini su base etnica? Sembrerebbe proprio che l’idea inizi a farsi strada anche nelle cancellerie europee. Dopo l’ubriacatura retorica dei primi anni ’90 – quando si è voluto imporre una soluzione piccolo-jugoslava in Bosnia Erzegovina -, seguita dalla virata verso soluzioni su base etnica con l’indipendenza kossovara – dimenticandosi delle minoranze serbe – forse è arrivato il momento di affrontare la questione balcanica con un po’ di sana Realpolitik.