Risulta sempre utile, informativa e sarebbe altamente didascalica una rivisitazione equilibrata della scelta compiuta dagli italiani nei campi di prigionia inglesi ed americani della seconda guerra mondiale, ricostruita nel lavoro di Arrigo Petacco, apparso nel 2011. L’autore ligure (1929-2018) osserva, davvero non a torto, che al momento dell’armistizio con gli alleati circa 600 mila italiani si trovavano prigionieri dall’Egitto all’ Algeria, alla Palestina al Kenya, dal Sudafrica all’ India e fino alle Hawaii.
Ma gli storici, sia per la mancanza di fonti ufficiali sia per “la delicatezza politica”, hanno guardato al tema in maniera confusa, generica e quindi superficiale e le notizie utilizzabili sono principalmente autobiografiche. Petacco tiene comunque a rilevare che, “per fedeltà ideologica al fascismo” (e poi alla RSI), vuoi per orgoglio, o, più semplicemente per lineare dignità militare”, l’atteggiamento degli italiani. Certi nomi vanno ripresi, proposti e davvero non perduti: Alberto Burri, Vincenzo Buonassisi, Giuseppe Berto, Gaetano Tumiati e Nino Nutrizio, diventati nel dopoguerra celebrati artisti, giornalisti e scrittori. Essi sono da recuperare alla nostra storia, da riconquistare all’attenzione e alla conoscenza delle giovani generazioni a cui sono del tutto ignoti.
Dalle pagine di Petacco emergono osservazioni centrate e misurate sulle esperienze di Hereford, pronti a ragionare sul “dopo”. I fascisti leali, in buona fede, credevano, confidavano nella prosecuzione della versione del regime diverso e depurato dai traditori e dai profittatori che lo avevano minato ed inquinato. Gli altri prospettavano società di impronta distinta, ovviamente più democratiche, identiche a quelle americane. E’ sorprendente ma in quelle aree non mancavano i cosiddetti “collettivisti”, addirittura comunisti.

I diversi giornaletti, redatti o “stampati” dai prigionieri più preparati, erano indi improvvisati quadri murali. “Argomenti” era molto ricercata per i suoi contenuti e per la presenza di 3 firme, destinate ad acquisire prestigio e fama, quelle di Giuseppe Berto, Dante Troisi e Gaetano Tummiati.
Il primo, ventottenne di Mogliano Veneto, aveva partecipato alla guerra d’Abissinia. Va conservata e rilanciata l’impressione del suo primo romanzo, intitolato La perduta gente, in cui “dallo sperduto campo del Texas in cui languiva, Berto, quasi per miracolo seppe descrivere realisticamente e in maniera tanto sconvolgente cosa stava accadendo in Italia e nella sua città: i bombardamenti, la fame, la disperazione, l’amore e la rabbia”. Ritornato in patria Berto ebbe dall’editore Longanesi il titolo cambiato in Il cielo è rosso con riferimento al cielo del Texas assunto durante i tifoni.
In seguito — è da ricordare ai giovani – Berto scrisse dei libri di grande successo come lo struggente “Anonimo veneziano”, il “Male oscuro”, “La cosa buffa”, “La gloria”, “Oh, Serafina!” e l’autobiografico “La guerra in camicia nera”, senza che gli sia stata perdonata la sua macchia di “irriducibile”. Anzi non raramente gli fu rimproverata dai colleghi invidiosi con trasparente malignità.