Con collaborazioni nella capitale con “Il Popolo Romano” e con periodici come “Nuova Antologia”, nonché tra i fondatori della rivista “Lirica”, Arturo Onofri (Roma 1885 – 1928), assieme a V. Cardarelli, A. Baldini e P.M. Rosso di San Secondo fu tra le giovani promesse letterarie (mantenuta nonostante la breve vita) nei primi anni del XX secolo.

Dalla fine del primo conflitto mondiale sino alla morte, per circa dieci anni, lavorò in qualità di amministrativo interno alla Croce Rossa Italiana. Dopo le valide composizioni poetiche d’esordio ma evidentemente influenzate da D’Annunzio, Pascoli e dal simbolismo francese e belga, ci riferiamo a “Liriche” (1907), “Poemi tragici” (1908) e “Canti delle oasi” (1909), con il racconto del 1912 “Disamore” e la nuova silloge riconfermata nel titolo di sette anni prima “Liriche”, Onofri, si presenta come originale continuatore in Italia del pensiero lirico-romantico tedesco del secolo precedente, lanciandosi dalla natura sino alle soglie cosmiche. Sono infatti di quegli anni nel quale esplode la Prima Guerra Mondiale gli scritti per la “Voce” diretta G. De Robertis, disintegrando metrica e sintassi ottocentesca in tandem con Giuseppe Ungaretti per mezzo di opere quali “Orchestrine” (1917) e “Arioso” (1921).
Se i suddetti scritti possono essere etichettati manualisticamente ed artisticamente come post-impressionisti, da qui sino al 1924 il poeta romano affrontò una grave crisi religiosa ed esistenziale, oltrepassandola per mezzo della silloge “Le trombe d’argento” (1924) e una introduzione all’ascolto del “Tristano ed Isotta” di Wagner. Ne “Il nuovo Rinascimento come arte dell’Io” (1925) risultò chiaramente influenzato dall’antroposofia di R. Steiner, il quale offriva al poeta romano, per mezzo di una interessante ed originale esegesi del cristianesimo esoterico una autentica elevazione formale e sostanziale dell’Io, attivando “parentele” tra la natura terrestre, il genere umano ed il cosmo.
Da questo momento alcune porte sempre benevole e tenute aperte dalla critica letteraria cominciarono a chiudersi. “Terrestrità del sole” (1927), “Vincere il drago!” (1928) e le opere postume: “Simili a melodie rapprese in mondo” (1928), “Zolla ritorna cosmo” (1930), “Suoni del Graal” (1932), “Aprirsi fiore” (1935), testimoniarono nel loro vortice densamente creativo la mimesi metamorfica delle piante, delle zolle, delle linfe, il respiro umano, la circolazione del sangue e le corrispondenze tra cosmo e coscienza individuale. Si trattava di composizioni formate a tratti anche da inni e preghiere, per giungere così alla divinità impersonale che permeava tutto l’universo. Onofri ambì ad elevare il simbolismo del secolo scorso sulla scia della poesia “ciclica” dantesca, in qualità di riferimento assoluto per i lettori. Le metafore divennero ardite, a tratti macchinose, ma quasi sempre efficaci e sorprendenti per i lettori più qualificati. L’endecasillabo di Arturo Onofri era parente stretto dell’endecasillabo francese a vocazione didascalica, assieme ad autori quali: F. Pessoa, R.M. Rilke, W.B. Yeats e O. Milosz, portò così il simbolismo allo splendore della piena maturità, preparando, o meglio aprendo la strada alla grande stagione ermetica europea.
“Un ritmo di movenze ardue, stellari,
benché frammisto a trascinii di rettile,
s’imprime, entro i tuoi lombi involontari,
in voci chiuse; e tu, angelo, emettile
nei tuoi passi felici
in cui tacendo dici
che il cielo, anche se in cicli millenari,
muove teco alla pari”.
(Vincere il drago, 79, p.95, Torino, 1928).
“Liberami dal peso e dall’ingombro
degli errori dell’anima, che ammala
per la sopravvivenza ottenebrante
del suo morto passato …
Ma tu sei la terra celestiale
Onde nacque il mio fusto e fogliò vivo
Nella tua plenitudine di grazia,
sfa nella luce di tue zolle d’oro
anche l’opaca pietra”.
(Suoni del Graal, 8, p. 16, Roma, 1932).