Mercoledì 13 aprile, Corriere della Sera: nel suo corsivo, l’ex genero di Stefano Rodotà paragona l’ambulante senegalese arrestato con maniere spicce il giorno prima, a Firenze, a George Floyd. È da appurare come siano andate le cose, ma secondo il tenero editorialista, gli agenti che hanno arrestato il malcapitato sono per forza di cose degli aguzzini che hanno esercitato un abuso di potere. Così come George Floyd, il cui soffocamento fu il pretesto per il dilagare, a livello mondiale, del movimento (tutt’altro che spontaneo e sincero) Black Lives Matter resta, per il pacioccoso corsivista, un martire della prepotenza sbirresca, e non un rapinatore con una certa dimestichezza con la violenza. Dettagli, il giornalista in questione predica da settimane la banalizzazione a oltranza: la realtà non va affrontata nella sua complessità, ma asservita al discorso dominante, il quale a sua volta impone una narrazione monodimensionale, apodittica e ad alzo zero.
Martedì 12 aprile, stesso editorialista, stesso quotidiano – il più venduto in Italia, e non solo da adesso, notiamo. L’orsacchiottoso giornalista, continuando una polemica con Alessandro Orsini – uno degli esperti di geopolitica rei, a detta del nostro e non solo (anche Antonio Polito, sullo stesso numero del Corriere, ha dedicato l’ennesimo accenno sarcastico agli “analisti” colpevoli di mettere in dubbio la narrazione precostituita), di esercitare quello stesso potere critico del quale i liberali, sin dalle scuole elementari, si dicono ammiratori – ha coinvolto persino l’ANPI.
Il manifesto diffuso dai partigiani del Duemila per il prossimo XXV aprile è, invero, piuttosto goffo: le bandiere appese per il lato corto alle finestre, a fare i precisini, sono rovesciate (attaccate dalla parte rossa, e non da quella verde); anche i fazzoletti al collo sono perciò al contrario. Un refuso diffusissimo, da anni, su tanti balconi: pazienza, non è peggio dei tifosi della Nazionale di calcio che allo stadio “cantano” il “bridge” dell’inno (“poropò, poropò, poropoppopoppopò…”, un’oscenità che il mondo non ci invidia; per di più, sempre in anticipo, perché affrettano il ritmo della prima strofa).
Il Winnie the Pooh torinese di stanza che propina il caffè dalla redazione di Milano si è però incattivito: nella “gaffe delle bandiere alle finestre, simil-italiane ma in realtà ungheresi”, vede un “omaggio inconscio a un politico di estrema destra, Orban, amico caro dell’aggressore russo”. Il processo alle intenzioni è un atto laido, un atteggiamento inquisitorio (eppure i liberali come il nostro si dicono ammiratori del “libero pensiero” tanto avversato dalle varie inquisizioni al potere – o almeno così sostengono quando blaterano le loro banalità su Giordano Bruno, uno che li avrebbe sepolti di sberleffi, e su Voltaire, un intollerante travestito da libertario) violento e meschino: stabilire cosa gli altri stiano pensando, anche “inconsciamente”, è uno psicologismo spicciolo e volgare; attribuire agli altri la propria “realtà” è tracotanza.
Questo per quel che riguarda la cattiveria di chi poi si attribuisce la patente di buono; passando al giornalismo, parlare di “aggressore russo” è fare informazione banale, quindi di scarsa qualità; e vagheggiare una “cara amicizia” tra Orban e Putin significa fare disinformazione, dato che nella guerra russo-ucraina l’Ungheria si è immediatamente distanziata dal cosiddetto “aggressore russo” (non è un dettaglio noto solo a quei cattivissimi esperti che provano a capire cosa sta succedendo, ma un dato di fatto finito sulle prime pagine dei giornali e sui titoli dei telegiornali). Subito prima, il fine editorialista deprecava che l’ANPI non avesse inserito, nel manifesto, alcuna critica al feroce dittatore, allo spaventoso “aggressore russo” assetato di sangue: e questo è un comportamento simile a quello di altri “buoni” con la bava alla bocca – per fare un esempio frivolo: le major hollywoodiane, su tutte la Disney, prima di mandare al cinema un film dal forte richiamo commerciale si confrontano coi desiderata delle lobby LGBT, le quali da anni hanno imposto il ricatto: voi fate i film come pretendiamo noi.
Così, l’ANPI (tacciato di essersi trasformata nell’Associazione Nazionale Putiniani d’Italia: gli inquisitori del politicamente corretto devono ribadire la loro bontà individuando dei nemici, che vanno esclusi dalla comunità civile applicando loro un marchio d’infamia) deve fare il manifesto come stabilito dai “buoni” del discorso dominante: il corsivista caffettaro del Corriere rimprovera loro di non avere incluso, nel disegno, alcun riferimento “all’invasore Putin, che se non è un fascista, di certo gli assomiglia”.
Qui la colpa non è tanto dell’editorialista, quando del direttore e/o del caporedattore cui l’articolo sia stato sottoposto prima di essere mandato in stampa (anche se, leggendo i “caffè” ma anche certi scritti di giornalisti della stessa risma, insorge il dubbio che in via Solferino si dia una scorsa agli articoli prima di pubblicarli): una frase simile farebbe guadagnare una grave insufficienza in un tema d’italiano delle scuole medie (o almeno, così sarebbe stato, quando a scuola si insegnava italiano, e non il linguaggio dei trapper); che la si consideri pubblicabile su di un quotidiano a tiratura nazionale, il quale per quanto affossato dal livello delle sue firme e dei suoi direttori più recenti, vanta comunque un certa tradizione culturale. Questa frase riassume tutto ciò che è il “caffè” con cui il Corriere svilisce, da qualche anno a questa parte, le sue prime pagine per almeno metà della settimana: sciatteria, povertà lessicale, incultura, visione corta, mancanza di profondità (anzi, suo rifiuto), pressapochismo, luoghi comuni, argomentazioni misere, cattiva informazione. Definire Putin “invasore” significa cancellare, agli occhi del lettore, i prodromi (lunghi, complessi, tragici) d’una guerra che non è cominciata il 24 febbraio scorso, ma (almeno) otto anni prima: al di là delle opinioni sul personaggio e sulle sue scelte, non è lecito ridurre tutto a definizioni d’una parola sola (o almeno, lo si è se si discute al bar: se si è pagati per scrivere su di un quotidiano, è osceno).
Su chi sia e chi non sia “fascista”, si fa disinformazione da oltre mezzo secolo: e si sperava che il punto più basso fosse stato raggiunto da Michela Murgia, con il libro “Istruzioni per diventare fascisti” accompagnato dal tragicomico “fascistometro” – una enorme operazione anti-culturale, perché ciò che la Murgia descriveva non aveva niente a che fare coi fascisti (il “fascismo” da lei additato essendo un riassunto di ciò che le suscita astio: un conservatorismo reazionario un po’ becero – Pasolini, che avversava il fascismo sapendo benissimo cosa sia – per averlo studiato ma soprattutto per averlo vissuto – le avrebbe serbato un po’ delle bacchettate che ha distribuito agli “antifascisti” per modo di dire); essendo il fascismo una enorme parte della storia politica italiana, e avendo l’intervento della Murgia contribuito a un dibattito politico di primo piano (era il 2018, le sinistre europee ripetevano allarmi su presunte “onde nere”), il danno socio-culturale è parecchio rilevante.
Prima di sputare sentenze (non proprio una nobile attività) si deve riflettere e ci si deve informare: “non è fascista ma certo gli somiglia”, sorvolando sulla contraddizione tra quella certezza incastrata in una frase che esprime vaghezza, non è una riflessione, e non si basa su nessuna informazione. Luoghi comuni sul fascismo, disinformazione su di una guerra in corso, brutture linguistiche, atteggiamenti da Stasi, liste di proscrizione e tantissimo astio nei confronti di chi invece prova a fare informazione seria. No, il problema non è chi insinua dubbi, chi cerca le visioni approfondite e ampliate, chi si informa e magari informa gli altri; il problema è, a più livelli – sociale, culturale, politico – questo discorso dominante, con le sue falsificazioni e le sue banalizzazioni
Il dramma, come se non bastasse la tragedia di cui tutto il panorama liberal è protagonista, consiste nel fatto che gli stessi che considerano Putin un fascista o quasi e che vedono fascismo (se non nazismo) ovunque, paventando neri pericoli eversivi un giorno sì e l’altro pure, supportano senza remore alcuna i neo-nazisti (cosiddetti) del battaglione Azov, Aidar, ecc. Questa gente non vale nulla, eppure continua a modellare l’opinione pubblica. Meglio allora una censura totalitaria, manifesta, dichiarata, piuttosto che la nostra versione italiana ed occidentale, non differente nella sostanza, ma subdolamente presentata come libertà di informazione.